MANDALA3
 
Glossario

Glossario dei termini usati in psicologia ripreso dal sito www.osservatoriopsicologia.it  e da wikipedia



Agorafobia:

Disturbo che può presentarsi isolatamente od in comorbilità con il disturbo di panico ed altri disturbi d’ansia caratterizzato dalla preoccupazione patologica che possa succedere qualcosa di negativo allontanandosi dal proprio “posto sicuro”, solitamente la casa. Si traduce frequentemente in una paura di sentirsi male all’esterno delle mura casalinghe e di non venir soccorsi adeguatamente e comporta una forte riduzione delle interazioni sociali.


Alessitimia

Il termine “alexitimia” fu utilizzato per la prima volta da Peter Sifneos e John Nemiah agli inizi degli anni ’70 sulla base delle osservazioni cliniche di pazienti che soffrivano di disturbi psicosomatici e fu definito operativamente a seguito della XI Conferenza Europea sulle Ricerche Psicosomatiche, nel 1976. Indica la mancanza di parole per esprimere le emozioni ed è caratterizzata da un insieme di deficit della competenza emotiva ed emozionale, che si manifesta con l’incapacità di mentalizzare, percepire, riconoscere, e descrivere verbalmente i propri e gli altrui stati emotivi (Galimberti, 2006). Tale disturbo viene attualmente considerato anche come un possibile deficit della funzione riflessiva del Sé. I soggetti alessitimici, nonostante l’apparente buon adattamento sociale, tendono anche a stabilire relazioni di forte dipendenza o, in mancanza di essa, preferiscono l’isolamento. Per tale ragione l’alessitimia è stata associata ad uno stile di attaccamento insicuro-evitante, caratterizzato da un bisogno talvolta ossessivo di attenzioni e cure e da un adattamento alla realtà sociale spesso di tipo conformistico.


Allucinazioni

Consistono nella percezione di stimoli che non esistono ma che vengono ritenuti reali – in assenza dello stimolo esterno, è il cervello a produrre lo stimolo sensoriale, riproponendo immagini, suoni, odori. Se prodotte dall’attivazione di una singola modalità sensoriale, vengono definite semplici; se prodotte dall’attivazione di più modalità sensoriali, vengono definite complesse.

Possono essere di vario tipo, tra cui:

  • visivo (allucinazioni elementari e non differenziate, dette fotomi, come lampi colorati, bagliori luminosi, forme geometriche; allucinazioni più complesse, come oggetti o animali in movimento, persone, corpi, scene naturali, etc.);
  • uditivo (allucinazioni semplici, dette acoasmi, come fruscii, sibili, ronzii, fischi, note musicali; allucinazioni complesse come voci, discorsi, canti);
  • olfattivo e gustativo ( riguardano rispettivamente odori e sapori insoliti);
  • tattile (allucinazioni spesso associate a quelle visive, si localizzano sulla superficie cutanea dando la sensazione di punture, bruciature, di formicolio causato dal brulicare di insetti sotto la pelle. Possono essere acute e discontinue, o continue);
  • somato-cenestesico (allucinazioni semplici o più complesse che riguardano sensazioni intra-corporee come brividi, impressione di paralisi e percezione alterata del proprio corpo).

Possono manifestarsi in condizioni di psicopatologia sistemica e neurologica, di deprivazione sensoriale, di stimolazione elettrica della corteccia cerebrale, di alterazione dello stato di coscienza, in fase di addormentamento (allucinazioni ipnagogiche) e di risveglio (allucinazioniipnopompiche).

In particolare, in caso di disturbi psichiatrici (in particolare della schizofrenia, ma talvolta della depressione maggiore, dello stato maniacale e del disturbo dissociativo), sono molto diffuse le allucinazioni di tipo uditivo, ma possono manifestarsi anche quelle di altro tipo, coinvolgendo qualsiasi altra modalità sensoriale. Secondo Carlson (2001) «l’allucinazione schizofrenica tipica è rappresentata da voci che si rivolgono all’individuo, talvolta per ordinargli di fare qualcosa, talvolta per rimproverarlo; in certi casi le voci pronunciano voci bizzarre o prive di senso» (pag. 565).


Ansia:

Si definisce come anticipazione apprensiva di un evento negativo che si manifesta a diversi livelli: somatico, comportamentale, cognitivo ed emozionale. Dal punto di vista somatico, il corpo prepara l’organismo ad affrontare la minaccia (una reazione d’attacco/fuga): la pressione del sangue e la frequenza cardiaca aumentano, la sudorazione aumenta, il flusso sanguigno verso i più importanti gruppi muscolari aumenta e le funzioni del sistema immunitario e quello digestivo diminuiscono; sul piano emozionale ne deriva un senso di terrore; a livello comportamentale possono manifestarsi azioni più o meno volontarie diretti alla fuga o comunque all’allontanamento dalla fonte d’ansia; cognitivamente i pensieri sono maladattivi e tendono ad incrementare lo stato di ansietà in una sorta di “mantra” ripetitivo ed ingravescente.


 Ansia da anticipazione

Detta anche ansia anticipatoria, è uno stato di preoccupazione che prepara la persona ad affrontare una determinata situazione. Diviene patologica quando è così intensa da paralizzare la persona rendendola incapace di reagire o comunque porta ad un deterioramento della prestazione stessa. Frequente nella maggior parte dei disturbi d’ansia assume connotazioni agorafobiche nell’omologo disturbo o nel disturbo di panico.


Ansia da prestazione

Tipo di ansia che nasce dalla paura di non essere all’altezza di un compito o di una prestazione che è regolata da standard personali e sociali ben definiti e di essere giudicati negativamente dagli altri come conseguenza di questo fallimento. Viene spesso associata ad una prestazione di tipo sessuale, ma può presentarsi in ogni circostanza che la persona consideri valutativa.


Ansia da separazione

Si manifesta come eccessivo stato di ansia del bambino ogni qual volta venga lasciato da una figura di riferimento (spesso la madre) in un ambiente sicuro, anche per partecipare ad attività ludiche (altrimenti si parla di fobia scolastica). Il bambino lamenta irrealistiche ed irragionevoli paure che possa verificarsi qualcosa di terribile a lui o ai propri cari durante il periodo di allontanamento.


Ansiolitici

Psicofarmaci in grado di sedare i sintomi ansiosi con attività immediata, a medio o a lungo termine, possono essere somministrati anche come coadiuvanti negli stati d’Insonnia. Possono avere effetti miorilassanti (rilassamento muscolare) ed anticonvulsivanti soprattutto ad alti dosaggi.

Si suddividono in ansiolitici benzodiazepinici e non benzodiazepinici sulla base della presenza, nel composto clinico, di un anello benzenico, una struttura esagonale legata ad un anello diazepinico, costituito da 7 atomi. La classificazione dei diversi tipi si basa sull’affinità per alcuni recettori cerebrali (GABA) e per l’emivita, ossia la durata degli effetti e della sostanza stessa nel sangue del soggetto che la assume.

Sebbene la loro somministrazione sia attualmente molto diffusa solo alcune figure professionali potrebbero adeguatamente supervisionare un trattamento (psichiatra, il neuropsichiatra infantile ed il neurologo).

Sono farmaci che inducono assuefazione, quindi durante il trattamento la persona non ha lo stesso effetto iniziale assumendo la stessa dose del prodotto, ma deve aumentarla. Generalmente si sviluppa tolleranza all’effetto ipnotico del farmaco, che quindi non diventa più efficace nel trattamento sistematico dell’insonnia, mentre, anche per un certo effetto placebo associato all’assunzione, può continuare ad essere efficace “al momento” negli stati ansiosi.

Il farmaco induce infatti dipendenza ossia si sono osservati stati di disagio psicologico ed una vera e propria sindrome somatica qualora non venga assunto in un breve periodo (1-2 settimane). Il 50% dei pazienti cui è stato prescritto il diazepam per 6 mesi ad un dosaggio terapeutico utile hanno sviluppato dipendenza fisica con molti effetti collaterali all’interruzione dell’uso.


Antidepressivi: psicofarmaci che innalzano il tono dell’umore. Hanno questo nome poiché vengono impiegati soprattutto nel trattamento della depressione, ma trovano largo impiego anche in ambiti diversi (trattamento dell’eiaculazione precoce ad es.). Possono essere di diversi tipi ed hanno modalità di somministrazione e tempi di azione diversi anche se in generale piuttosto lunghi. Possono essere somministrati da qualunque medico anche se solo lo psichiatra, il neuropsichiatra infantile ed il neurologo sono da considerarsi le figure professionali di riferimento per intraprendere questo percorso terapeutico, il quale non dovrebbe mai essere inferiore ai 6 mesi di tempo, perché questa è la latenza media di effetto dei prodotti.

Dall’inizio del trattamento entro 2 mesi (4-6 settimane) si osserva di solito uni inizio di remissione sintomatologica, mentre gli effetti collaterali possono essere presenti fin dalle prime settimane; è necessario continuare il trattamento per almeno ulteriori 4 mesi e, qualora sia indicato, tentare lo scalaggio graduale il mese successivo. Non è infatti indicato fare una cura con Antidepressivi inferiore ad un anno o con dosaggi troppo bassi, in quanto non servirebbe a nulla!

Gli Antidepressivi si suddividono in diverse categorie, si ricordano i Triciclici (i primi sperimentati, che prevedono principalmente effetti collaterali antimuscarinici: fauci secche, stitichezza, etc,), Inibitori della MAO (un acceleratore di demolizione di sostanze che solitamente sono carenti nei Depressi), gli SSRI ed SNRI che sono farmaci selettivi nel reperimento cerebrale di Serotonina o Noradrenalina, fortemente carenti, soprattutto in determinate aree del cervello dei pazienti con Depressione e non privi di effetti collaterali; uno di essi consiste nella riduzione del rilascio di Dopamina, che porta ad un appiattimento cognitivo. Negli uomini possono dare disfunzioni erettili, diminuzione del desiderio sessuale e anorgasmia, per questo motivo possono essere impiegati nei disturbi sessuali come l’eiaculazione precoce; più in generale si sono poi osservati disturbi gastrointestinali.


Attacchi di panico: Si definiscono come un periodo di paura o disagio intensi, tipicamente con un inizio improvviso e solitamente della durata inferiore ai trenta minuti. I sintomi includono tremore, respirazione accelerata e superficiale, sudore, nausea, vertigini, iperventilazione, sensazioni di formicolio, tachicardia, sensazione di soffocamento.

Paura, ansia, angoscia e terrore, sono emozioni molto simili, non sempre distinguibili. Ciò che le accomuna è il loro contenuto cognitivo e la reazione somatica associata: durante l’attacco di panico le persone cominciano a credere che stia per accadere loro qualcosa di terribile e pericoloso, tanto da far impazzire o morire o perdere il controllo (contenuto cognitivo); tale convinzione personale induce una reazione di allarme particolare che permette di combattere o fuggire e che, in ogni caso, tende ad opporsi al pericolo incombente più o meno reale che sia (reazione somatica). La realizzazione del comportamento induce il rinforzo dello stesso, per cui la persona, sentendo ridurre i sintomi allontanandosi da una certa situazione continuerà ad evitarla e questo indurrà alla creazione di una mappa mentale di “zone sicure” in cui il panico non può manifestarsi che diventano sempre più limitate nello spazio. Il disturbo di panico si riferisce ad una sintomatologia caratterizzata da attacchi frequenti e continuati. Al contrario è possibile aver avuto un solo attacco di panico, senza che tale disturbo tenda a cronicizzarsi.

Caratteristica principale degli attacchi di panico è che la persona sente di avere un problema sul piano fisico, spesso una malattia fulminante come un infarto od un ictus e non riconosce la natura psicologica di essi; per questo motivo le diagnosi vengono spesso fatte dagli infermieri dei pronto soccorsi, o dalla guardia medica.

Il trattamento d’elezione per gli attacchi di panico è di tipo psicoterapeutico, anche se in alcuni casi può essere utile la combinazione con una terapia farmacologica.


Autostima: valutazione che una persona dà di se stessa, strettamente dipendente da come essa si percepisce in rapporto agli altri e da come vorrebbe essere. In termini accademici si definisce come la discrepanza tra Sé percepito e Sé ideale; il primo è caratterizzato da ciò che la persona pensa di avere o non avere, è una valutazione quantitativa delle doti, anche se fortemente interpretativa; il secondo è invece quella persona che si vorrebbe diventare. è chiaro dunque che i livelli di autostima dipendono da una realistica interpretazione di entrambi questi Sé e dalla capacità di porsi obiettivi personali positivi e raggiungibili.

Avere buoni livelli di autostima significa valutare se stessi in modo equo e sapersi porre obiettivi di miglioramento possibili e stimolanti che verranno perseguiti con passione e non con l’ansia del fallimento.

Il concetto di Autostima è strettamente legato a quello di Autoefficacia, ossia la convinzione delle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessarie per gestire adeguatamente le situazioni che si incontreranno in un particolare contesto, in modo da raggiungere gli obiettivi prefissati.

Se l’autoefficacia è un costrutto abbastanza limitato, l’autostima è una stima globale; per esempio un calciatore professionista potrebbe vedere un abbassamento della sua autoefficacia come giocatore di scacchi, dopo aver perso una partita con un amico, ma non perderebbe per questo la propria autostima.

Perdere il proprio senso di autoefficacia in campi diversi, che spaziano da abilità specifiche a caratteristiche più personali, possono comportare un abbassamento dell’autostima che può trasformarsi da temporaneo a permanente, qualora non si prevedano situazioni di rinforzo positivo, anziché di fallimento.


Benzodiazepine: sono farmaci ansiolitici e ipnotici tra i più usati. Si legano ai recettori delle benzodiazepine a livello del complesso recettoriale chiamato GABA agendo, si presuppone, sui circuiti dell’amigdala. Si usano prevalentemente per ansia a breve termine, per quella più prolungata si preferiscono gli SSRI. Si usano anche per incrementare gli effetti degli anti-psicotici o degli stabilizzatori dell’umore (utilizzati in alcuni disturbi del tono dell’umore).

Riportiamo i farmaci più comuni divisi in gruppi sulla base dei tempi di azione:

Emivita maggiore di 48 ore:

Diazepam (Valium, Ansiolin, Tranquirit, Noan)

Delorazepam o Clordemetildiazepam (En)

Nordazepam o Desmetildiazepam (Madar, Stilny)

Clordiazepossido (Librium)

Prazepam (Prazene, Trepidan)

Flurazepam (Dalmadorm, Flunox)

Clobazam (Frisium)

Quazepam (Quazium)

Estazolam (Prosom)

Halazepam o Alazepam (Paxipam)

Medazepam (Nobrium)

BDZ a durata d’azione intermedia – Emivita compresa tra 24 e 48 ore:

Bromazepam (Lexotan, Compendium)

Clotiazepam (Tienor, Rizen)

Nitrazepam (Mogadon)

Flunitrazepam (Darkene, Roipnol)

Clonazepam (Klonopin, Klonapin, Rivotril)

Cinolazepam (Gerodorm)

Estazolam (ProSom, Eurodin)

Pinazepam (Domar)

Tofisopam (Emandaxin, Grandaxin)

Cloxazolam (Lubalix, Sepazon, Olcadil)

BDZ a breve durata d’azione – Emivita minore di 24 ore:

Alprazolam (Xanax, Frontal, Valeans, Mialin)

Lorazepam (Tavor, Control, Lorans, Ativan e Trapax)

Lormetazepam o Metillorazepam (Noctamid, Minias)

Oxazepam (Serpax, Limbial)

Clotiazepam (Rizen, Tienor)

Ketazolam (Anseren)

Loprazolam (Dormonoct)

Temazepam o metiloxazepam (Restoril, Normison, Euhypnos)

Tetrazepam (Mylostan)

Camazepam o comazepam (Albego, Limpidon, Paxor)

Adinazolam (Deracyn)

Gidazepam

BDZ a durata d’azione brevissima – Emivita da 1 a 7 ore

Brotizolam (Lendormin)

Midazolam (Ipnovel, Dormicum)

Triazolam (Halcion, Songar)

Etizolam (Depas, Pasaden)

Doxefazepam (Doxans)

Hanno effetti collaterali sul fegato e sull’emocromo, possono dare dipendenza sia fisica che psicologica se utilizzati per terapie superiori ai 6 mesi e senza un adeguato controllo di un esperto.


Burn-out: risultato patologico di un processo stressogeno che colpisce coloro che esercitano «professioni di aiuto» (ma viene attualmente esteso a molte professionalità “al pubblico”) quali psicologi, psichiatri, assistenti sociali, infermieri. Psicologicamente rappresenta il tipo di risposta ad una situazione avvertita come intollerabile, in quanto l’operatore percepisce una distanza incolmabile tra quantità delle richieste rivoltegli dagli utenti, e risorse disponibili (individuali e organizzative) per rispondere positivamente a tali richieste. Ne deriva un senso di impotenza acquisita, dovuta alla convinzione di non poter fare nulla per eliminare l’incongruenza tra ciò che si ritiene che l’utente si aspetti e ciò che si è in grado di offrirgli. Tale senso di impotenza dà luogo ad uno stato di logoramento e di stress psicofisico, che rende gli operatori meno attenti e disponibili nei confronti degli utenti.

La sindrome del burn-out rappresenta, dunque, un fenomeno molto complesso. Esso può avere diverse manifestazioni che hanno la specificità di riguardare la sfera lavorativa e che si caratterizzano per una combinazione di reazioni generiche allo stress con specifici sintomi comportamentali e di modificazione degli atteggiamenti:

  1. Sintomi fisici, quali fatica, frequenti mal di testa, disturbi gastrointestinali, insonnia, cambiamenti nelle abitudini alimentari, uso di farmaci;
  2. Sintomi psicologici, ad esempio, senso di colpa, negativismo, alterazioni dell’umore, scarsa fiducia in sé, irritabilità, scarsa empatia e capacità di ascolto;
  3. Reazioni comportamentali sul luogo di lavoro, quali assenze o ritardi frequenti, tendenza ad evitare contatti telefonici e a rinviare gli appuntamenti, scarsa creatività, ricorso a procedure standardizzate;
  4. Cambiamenti di atteggiamento nei confronti dei pazienti, quali chiusura difensiva al dialogo, cinismo, spersonalizzazione nei rapporti, distacco emotivo e indifferenza ai problemi dell’altro.

Il Burn-out implica dei costi elevati per tutti i soggetti coinvolti nella gestione dei servizi: gli operatori, che pagano il loro disagio in termini personali, spesso con somatizzazioni, frustrazioni, dispersione di risorse, sottoutilizzo di potenzialità; gli utenti, per i quali un rapporto con operatori «bruciati» (letteralmente burned) risulta frustrante, inefficace o dannoso; la comunità, che vede vanificati forti investimenti in ambito sociale e nei servizi pubblici.


Compulsione: comportamento ripetitivo o azione mentale che la persona si sente costretta ad eseguire per ridurre il disagio causato dai pensieri ossessivi o per scongiurare il verificarsi di una qualche calamità. Si osserva sovente nel disturbo ossessivo-compulsivo.


Coscienza: Il termine Coscienza deriva dal latino Cum-scire (“sapere insieme”) ed indicava originariamente un determinato  stato interiore di sintonia tra i tre centri (centro intellettivo”, “centro motore-istintivo” e “centro emozionale”) che, se raggiunto, permetteva all’uomo di elevare la propria ragione.

La coscienza è un concetto complesso che non si può riassumere in un’unica definizione, in quanto essa viene intesa in modi diversi a seconda dell’ambito di studio preso in considerazione: psicologico, neurofisiologico, filosofico, etico, morale. Ciascuna disciplina pone l’accento su aspetti diversi, da quelli fisiologici a quelli comportamentali, filosofici, morali, fornendo definizioni parziali e limitate al proprio campo d’indagine.

In senso moderno, il termine è stato introdotto da Leibniz  che distinse les petites perceptions, cioè la somma degli stimoli subliminali, dall’aperception attraverso cui le percezioni arrivano a livello cosciente. Wernicke  localizzò    l’ aperception, intesa come consapevolezza della propria sensibilità, come “organo” nella corteccia cerebrale, come fosse un’entità a sé. A questa definizione si contrappose Wundt affermando che  “la coscienza consiste nel fatto di constatare in noi stessi certi stati e fenomeni, la coscienza stessa non è uno stato o condizione suscettibile di separazione da tali processi interiori” (1873-1874). Queste due posizioni sono esemplari della direzione assunta dallo studio della coscienza in ambito psicologico e neurofisiologico, da un lato intesa come un  fenomeno qualitativo della psiche, dall’altro come entità fisiologica neurofisiologicamente localizzabile.

In ambito neurofisiologico, con l’introduzione dell’elettroencefalografia e il progredire delle conoscenza in ambito medico, si sviluppò la tesi della coscienza caratterizzata da uno stato di vigilanza e uno stato di consapevolezza. Il primo, descrivibile con precisi indici fisiologici, non è necessariamente associato alla consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante, come nel caso dello stato vegetativo.

In ambito psicologico nella sua accezione più generale si può intendere la coscienza come un’esperienza soggettiva o cosciente di vita interiore o di vissuto. L’esperienza cosciente è parte dell’attività della mente, quest’ultima intesa come totalità di fenomeni psichici attuali o potenziali, o più in generale come elaborazione simbolica di segnali o informazioni.

Secondo Jaspers la coscienza ha tre significati:

  • 1) l’interiorità dell’esperienza vissuta; l’incessante manifestazione dell’anima (o psiche), anche in assenza di scissione tra l’io e il soggetto, come puro sentire che non è cosciente né di sé, né dell’oggetto;
  • 2) è un sapere qualcosa o coscienza oggettiva, basata sulla scissione soggetto/oggetto, ove soggetto è colui che percepisce, rappresenta, pensa;
  • 3) autoriflessione o coscienza che si ha di se stessi.

A ciò si contrappone l’inconscio inteso:

1) come ciò che non esiste interiormente, non essendo un’esperienza vissuta;

2) ciò che non viene conosciuto come oggetto, anche se può essere stato inconsapevolmente percepito e come tale esercitare la sua influenza a distanza;

3) ciò che non è giunto alla conoscenza di se stesso.

Jaspers sottolinea che la vita psichica non può essere compresa né come sola coscienza  né dalla coscienza soltanto, dovendosi sottintendere alla vita psichica veramente vissuta una struttura extracosciente.

In ambito psicoanalitico la coscienza, anche se in maniera marginale, costituisce anche per Freud il punto di partenza per la giustificazione  dell’inconscio. “Che parte rimane nella nostra esposizione alla coscienza, che un tempo era onnipotente e ricopriva tutto il resto? Nient’altro che quella di organo di senso per la percezione di qualità psichiche“. Nella distinzione tra Es, Io Super-Io, Freud  evita di identificare la coscienza con l’Io limitandosi a stabilire un semplice legame di appartenenza della coscienza all’Io. L’Io, è quell’ istanza psichica che scarica gli eccitamenti sul mondo esterno ed esercita il controllo su tutti i processi parziali,  anche durante il sonno,  la coscienza ad esso legata durante il sonno dorme, mentre l’Io continua a vigilare.

Anche per Jung lo psichico non coincide con la coscienza:  “La coscienza è la funzione o l’attività che mantiene il rapporto di contenuti psichici con l’Io. La coscienza non è identica alla psiche, in quanto la psiche rappresenta la totalità di tutti i contenuti psichici, i quali non sono di necessità collegati tutti direttamente con  l’Io, ossia non sono con l’Io in un rapporto tale che ad essi spetti la qualità della consapevolezza”.

Il filosofo Hamilton afferma: ” La coscienza non può essere definita: noi possiamo sapere perfettamente ciò che è la coscienza, ma non possiamo comunicare agli altri  senza confusione una definizione di ciò che noi stessi afferriamo. La ragione è semplice: la coscienza si trova alla radice della cono


Depressione: più correttamente Depressione Maggiore è un disturbo della classe del Tono dell’Umore, caratterizzato in primo luogo da un umore depresso per la maggior parte del giorno, per la maggior parte dei giorni in un range di tempo pari a due settimane. Durante il periodo depressivo si osservano modificazioni di tipo fisiologico: nell’irrorazione sanguigna cerebrale e della regolazione di alcuni neurotrasmettitori; di tipo comportamentale: rallentamenti o agitazione, mancanza di energie, cambiamenti nel sonno e nell’alimentazione (con le conseguenze che comportano); di tipo cognitivo: frequenti pensieri negativi, fino a quelli di morte o di suicidio, sensazione di essere inutile, difficoltà di concentrazione.

Disturbo di Personalità:

nel DSM-IV-TR, un Disturbo di Personalità (DP) è definito in generale, come:

Un modello abituale di esperienza interiore e di comportamento, che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo (…), risulta inflessibile e pervasivo, in una varietà di situazioni personali e sociali (…),  determina un disagio clinicamente significativo e compromissione del  funzionamento sociale, lavorativo e di altre aree importanti (…), è stabile e di lunga durata, e l’esordio può essere fatto risalire almeno all’adolescenza o alla prima età adulta”.

Un modello abituale è uno “stile” di personalità, rappresenta cioè, una sorta di filtro attraverso il quale la persona interpreta il proprio mondo interiore, il mondo esterno, gli altri e tutte le contingenze della propria vita. Nel DP tale modello è pervasivo e inflessibile e non si modifica in base ai cambiamenti ambientali, diventando pertanto invalidante per il soggetto che, tuttavia, non ne avverte la stranezza o l’incoerenza. Tale modello non risulta, inoltre, meglio giustificato come manifestazione o conseguenza di un altro disturbo mentale e non risulta collegato agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., una droga di abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale (per es., un trauma cranico).

Le manifestazioni del comportamento e dell’esperienza interiore del soggetto con DP si esprimono nei seguenti quattro domini:

  • 1. Cognitività: compromissione del modo di percepire, interpretare, dare valutazioni obiettive del proprio mondo interiore e degli altri, delle relazioni interpersonali e sociali.
  • 2. Affettività: alcuni disturbi presentano un tipo di affettività inibita, coartata, inespressa, altri disturbi, al contrario manifestano in modo eccessivo e amplificato la propria emotività.
  • 3. Controllo degli impulsi: i disturbi relativi al controllo degli impulsi si dislocano lungo una sorta di continuum, che va da un estremo di ipercontrollo, all’estremo opposto, di deficit inibitorio.
  • 4. Funzionamento interpersonale.

Tutti i DP sono disadattivi e presentano difficoltà di relazione, o di efficienza lavorativa o scolastica, i pazienti con DP fanno fatica a mantenere un lavoro, spesso ne cambiano diversi, o non lavorano affatto, si sposano meno di altri pazienti, o mai, divorziano più spesso. Se confrontati tra loro, i diversi DP, mostrano differenti livelli di impoverimento del funzionamento generale: i pazienti gravi presentano livelli inferiori di funzionamento sociale, lavorativo  e personale, rispetto a pazienti che possono avere livelli di compromissione significativi, anche in una sola area di funzionamento. Infine si è notato che, anche al migliorare delle condizioni psicopatologiche, nei DP, al contrario di quanto accade nei disturbi dell’umore o d’ansia, possono perdurare le difficoltà di adattamento sociale e il livello di funzionamento generale: questo, verosimilmente, a causa del lungo perdurare di sintomi e comportamenti disfunzionali che hanno per troppo tempo compromesso le relazioni e lo sviluppo sociale della persona.


Disturbo Borderline di Personalità

Il termine borderline deriva dall’antica classificazione dei disturbi mentali, raggruppati in nevrosi e psicosi, e significa letteralmente “linea di confine” etimologicamente originato dal fatto che tale disturbo era riferito a pazienti con personalità marginali che funzionano “al limite” della psicosi pur non giungendo agli estremi.

Le formulazioni del manuale DSM IV, come le classificazioni più moderne internazionali (ICD-10) hanno ristretto la denominazione di disturbo borderline fino a indicare quella patologia i cui sintomi sono la disregolazione emozionale e l’instabilità del soggetto.

Il disturbo borderline di personalità è caratterizzato da vissuto emozionale eccessivo e variabile, e da instabilità riguardanti l’identità dell’individuo di cui uno dei sintomi paradigmatici è la paura dell’abbandono. I soggetti borderline soffrono di crolli della fiducia in sé stessi e dell’umore, attuando condotte autodistruttive e distruttive delle loro relazioni interpersonali. Alcuni individui possono soffrire di momenti depressivi acuti anche estremamente brevi, ad esempio pochissime ore, ed alternare comportamenti normali. La caratteristica dei pazienti con disturbo borderline è, inoltre, una generale instabilità esistenziale. La loro vita è caratterizzata da relazioni affettive intense e turbolente che terminano bruscamente, e il disturbo ha spesso effetti molto gravi provocando “crolli” nella vita lavorativa e di relazione dell’individuo

Dal punto di vista clinico i pazienti appaiono quasi sempre in stato di crisi e tale fenomenologia rende la persona assolutamente imprevedibile. Raramente gli individui con disturbo borderline realizzano in pieno le loro capacità. La natura tormentata della loro vita si riflette in ripetuti atti autodistruttivi. Possono procurarsi automutilazioni per sollecitare aiuto dagli altri, per esprimere rabbia o per cercare di attutire sentimenti soverchianti. Sentendosi sia dipendenti sia ostili questi soggetti hanno relazioni interpersonali tumultuose: possono essere dipendenti dalle persone cui sono legati ed esprimere un’enorme rabbia nei confronti dei loro amici quando vengono frustrati. D’altro lato, non riescono a tollerare la solitudine e preferiscono una frenetica ricerca di compagnia, indipendentemente da quanto possa essere insoddisfacente, al rimanere da soli. Per alleviare la solitudine, anche se solo per brevi periodi, accettano l’amicizia di persone estranee o hanno comportamenti promiscui. Spesso lamentano una cronica sensazione di vuoto e di noia e la mancanza di un senso coerente di identità (diffusione dell’identità); quando sono sottoposti a pressione, spesso si lamentano di quanto si sentono depressi per la maggior parte del tempo, malgrado il fermento degli altri affetti.

Si osserva talvolta in questi pazienti la tendenza all’oscillazione del giudizio tra polarità opposte, un atteggiamento dicotomico che non conosce mediazioni o negoziazioni. Ogni persona con cui il soggetto entra in relazione viene categorizzata come o completamente buona o completamente cattiva. Essi percepiscono gli altri come figure protettive, cui legarsi strettamente, oppure come persone odiose e sadiche, che li deprivano dei bisogni di sicurezza e minacciano di abbandonarli ogni volta che si sentono dipendenti. Come conseguenza di questa scissione, le persone buone vengono idealizzate e quelle cattive svalutate. Il disturbo compare nell’adolescenza e concettualmente ha aspetti in comune con le comuni crisi di identità e di umore che caratterizzano il passaggio all’età adulta, ma avviene su una scala maggiore, estesa e prolungata determinando un funzionamento che interessa totalmente anche la personalità adulta dell’individuo.

Il disturbo di personalità borderline si presenta in una varietà di contesti  e per porre la diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità secondo il DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) devono essere presenti, simultaneamente, almeno cinque fra nove criteri diagnostici. I nove criteri, che riguardano gli stili di comportamento e gli atteggiamenti emotivi abituali del paziente, sono:

1) forte sentimento di instabilità e incertezza circa la propria identità,

2) paura cronica di essere abbandonati,

3) drammatica instabilità nelle relazioni affettive,

4) marcata reattività dell’umore (rapide oscillazioni del tono emotivo fra depressione, euforia, irritabilità e ansia),

5) frequenti esperienze di collera immotivata,

6) cronici sentimenti di vuoto interiore,

7) transitori ma ricorrenti sintomi dissociativi (depersonalizzazione, amnesie lacunari, stati oniroidi di coscienza) oppure di ideazione paranoide,

8) comportamenti auto-lesivi impulsivi e incontrollabili (abbuffate compulsive, promiscuità sessuale senza attenzione a rischi di infezioni o di gravidanze indesiderate, cleptomania, abusi di alcool e droghe, ferite auto-procurate),

9) minacce o tentativi ricorrenti di suicidio.

La complessità delle valutazioni diagnostiche necessarie per identificare, più che sintomi psichiatrici ben definiti (come l’ansia, la depressione, le fobie, le condotte alimentari abnormi, le ossessioni e il delirio) stili di comportamento ed atteggiamenti emozionali – i quali inevitabilmente sfumano, nei diversi candidati alla diagnosi, dai limiti della normalità all’evidente patologia – contribuiscono ai dubbi sulla legittimità di elevare il Disturbo Borderline di Personalità al rango di categoria nosografica distinta e ben definita. In effetti, basandosi sui criteri del DSM-IV, è spesso impossibile discriminare con chiarezza il Disturbo Borderline di Personalità da altri disturbi di personalità, soprattutto dello spettro impulsivo.


Disturbo Paranoide di Personalità

Caratteristiche

Il Disturbo Paranoide di Personalità appartiene al cluster A, che comprende i disturbi paranoie, schizoide e schizotipico, ed è contraddistinto da caratteristiche di eccentricità e stranezza. In accordo con recenti suggestioni della letteratura, che descrivono i DP in continuità con la Personalità normale e con i disturbi in asse I, è importante sottolineare che una modalità di pensiero leggermente paranoide non è di per sé patologica e può svolgere una funzione nello sviluppo dell’individuo e nell’organizzazione dell’esperienza. Si parla di disturbo Paranoide, quindi, quando la modalità di pensiero diventa pervasiva e rigida, quando cioè il modello di comportamento e di pensiero paranoide si manifesta in molteplici situazioni e ambiti della vita della persona e quando tale modello di comportamento e pensiero (stile) risulta inflessibile, resistente al cambiamento e all’apprendimento, ovvero non funzionale per l’adattamento.

La caratteristica principale del Disturbo Paranoide di Personalità è un’estrema sfiducia e sospettosità. Le persone con questo disturbo assumono che gli altri li sfruttino, li danneggino o li ingannino, anche di fronte a prove contrarie a queste aspettative,  sospettano, sulla base di prove insignificanti o inesistenti, che gli altri complottino contro di loro; dubitano, senza giustificazione, della lealtà e della affidabilità di amici o colleghi, le cui azioni vengono esaminate minuziosamente per evidenziare intenzioni ostili. Gli individui con questo disturbo sono riluttanti ad entrare in intimità con gli altri, poiché temono che le informazioni che confidano vengano usate contro di loro e per questo motivo possono rifiutarsi di rispondere a domande personali. Leggono significati nascosti umilianti e minacciosi in rimproveri o altri fatti benevoli. Per esempio, possono malinterpretare un onesto errore da parte di qualcuno, come un tentativo deliberato di imbroglio, o possono vedere un rimprovero scherzoso come un grave attacco. I complimenti vengono spesso fraintesi, possono vedere un’offerta di aiuto come una critica al fatto che non stanno facendo abbastanza bene da soli.

Le persone con il disturbo paranoide provano costantemente risentimento e sono incapaci di dimenticare insulti, offese o ingiurie, che pensano di avere ricevuto. Piccole offese provocano grande risentimento, i sentimenti ostili persistono per molto tempo e reagiscono con rabbia agli insulti percepiti. Possono essere gelosi in modo patologico, spesso sospettano che il coniuge o il partner sia infedele, senza una giustificazione adeguata. Possono raccogliere prove per supportare le loro convinzioni di gelosia; possono pretendere di mantenere un controllo completo delle relazioni intime per evitare di essere traditi, e mettere in dubbio i luoghi in cui si trova, le azioni, le intenzioni, e la fedeltà del coniuge o partner. Le persone co DP Paranoide hanno difficoltà ad andare d’accordo con gli altri e spesso hanno problemi nelle relazioni strette. La loro eccessiva sospettosità e ostilità possono essere espresse con una chiara polemica, con lamentele ricorrenti. Per il loro atteggiamento sospettoso possono agire in modo guardingo, misterioso o tortuoso, ed apparire “freddi” e privi di sentimenti positivi. Sebbene possano sembrare obiettivi, razionali e privi di emotività, spesso dimostrano labilità affettiva con predominanza di espressioni ostili, ostinazione e sarcasmo. Poiché gli individui con il Disturbo Paranoide di Personalità non hanno fiducia negli altri, mostrano un’eccessiva necessità di essere autosufficienti e un forte senso dell’autonomia. Per la rapidità a contrattaccare in risposta alle minacce presunte, possono essere litigiosi e frequentemente coinvolti in dispute legali, possono mostrare fantasie grandiose e irrealistiche, spesso si impegnano in argomentazioni di potere e rango e tendono ad elaborare stereotipi negativi degli altri, particolarmente di coloro che appartengono a gruppi di popolazione distinti dal proprio. Possono essere percepiti come “fanatici”, e fondare “culti” o gruppi strettamente aggregati con altri che condividono i loro sistemi di convinzioni paranoidi. In risposta allo stress, gli individui con questo disturbo possono presentare episodi psicotici brevi (che durano da minuti a ore).


Disturbo Schizoide di Personalità

Caratteristiche

Le caratteristiche essenziali del Disturbo Schizoide di Personalità consistono in modalità pervasive di distacco nelle relazioni sociali e una gamma ristretta di esperienze e di espressioni emotive nei contesti interpersonali. Tale modalità compare  nella prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti.

Gli individui con Disturbo Schizoide di Personalità sembrano non desiderare l’intimità, appaiono indifferenti in merito a stabilire relazioni strette, e non sembrano trarre molta soddisfazione dal far parte di una famiglia o di altro gruppo sociale. Non sono interessati, nè traggono piacere dalle relazioni sessuali con altre persone. Preferiscono passare il tempo da soli e appaiono socialmente isolati, scegliendo quasi sempre attività o passatempi solitari, che non implicano l’interazione con gli altri, ad esempio prediligono lavori in cui sia ridotto il contatto con gli altri, preferiscono compiti meccanici o astratti, come giochi al computer o matematici. Vi è di solito una ridotta capacità di provare piacere per esperienze sensoriali, fisiche o interpersonali. Questi individui non hanno amici stretti o confidenti, eccetto, a volte, un parente di primo grado. Gli individui con Disturbo Schizoide di Personalità spesso sembrano indifferenti sia all’approvazione che alle critiche degli altri, non rispondono appropriatamente alle condotte sociali, tanto da apparire socialmente inetti o superficiali e assorbiti da se stessi. Possono mostrare ridotta reattività emotiva, e raramente ricambiano gesti o espressioni del volto, come sorrisi o cenni del capo. Affermano di provare di rado forti emozioni, come rabbia e gioia, o sono incapaci di manifestarle. Comunque, in circostanze molto insolite, in cui questi individui si trovino almeno temporaneamente a proprio agio nel rivelare se stessi, possono riconoscere di avere sentimenti dolorosi. La terapia di questo disturbo è molto difficile, in quanto chi ne è affetto non ne riconosce la necessità, non prova disagio e raramente richiede aiuto, a differenza di ciò che si verifica nel Disturbo Evitante, che soffre per l’isolamento. Il confine con la schizofrenia è molto lieve e la diagnosi differenziale fra il disturbo di personalità e la psicosi è difficile.

Il disturbo non si manifesta esclusivamente durante il decorso della Schizofrenia, di un Disturbo dell’Umore con Manifestazioni Psicotiche, di un altro Disturbo Psicotico, o di un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo, e non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una condizione medica generale.


Fobia: paura estrema, irrazionale e sproporzionata per oggetti, situazioni o attività che non rappresentano di per sé una reale minaccia e verso cui la maggior parte delle persone si confronta senza particolari difficoltà. Chi ne soffre, infatti, è sopraffatto dal terrore all’idea di venire in contatto con il proprio oggetto fobico, spesso un animale innocuo come un ragno o una lucertola, o di fronte alla prospettiva di compiere un’azione che lascia indifferenti la maggior parte delle persone (ad esempio, il claustrofobico non riesce a prendere l’ascensore o la metropolitana, o più in generale a trovarsi in piccoli ambienti chiusi). Si tratta comunque di condizioni che in generale non sono considerate come estremamente piacevoli da quasi nessuno: in molti non amano gli insetti, dividere spazi angusti con altre persone, parlare di fronte ad una folla immensa e così via. La differenza tra il fastidio ed il disturbo vero e proprio, sta nel fatto che le persone che soffrono di fobie si rendono perfettamente conto dell’irrazionalità di certe reazioni emotive, ma non possono controllarle e quindi il tentativo di evitarle e le manifestazioni fisiologiche che compaiono in tali circostanze sono irresistibili.

La presenza dell’oggetto fobico, o talvolta anche solo il pensiero di esso, induce alcuni sintomi fisiologici come tachicardia, disturbi gastrici e urinari, nausea, diarrea, senso di soffocamento, rossore, sudorazione eccessiva, tremito e spossatezza. Si sta male e si desidera una cosa sola: fuggire!

Scappare, d’altra parte, è una strategia di emergenza. La tendenza ad evitare tutte le situazioni o condizioni che possono essere associate alla paura, sebbene riduca sul momento gli effetti della paura, in realtà costituisce una micidiale trappola: ogni evitamento, infatti, conferma la pericolosità della situazione evitata e prepara l’evitamento successivo (in termini tecnici si dice che ogni evitamento rinforza negativamente la paura). Tale spirale di progressivi evitamenti produce l’incremento, non solo della sfiducia nelle proprie risorse, ma anche della reazione fobica della persona, al punto da interferire significativamente con la normale routine dell’individuo, con il funzionamento lavorativo o scolastico oppure con le attività o le relazioni sociali. Chi ha la fobia dell’aereo può trovarsi, ad esempio, a rinunciare a molte trasferte, e la cosa diventa imbarazzante se è necessario spostarsi per lavoro. Chi è terrorizzato dagli aghi e dalle siringhe può rinunciare a controlli medici necessari o privarsi dell’esperienza di una gravidanza. Chi ha paura dei piccioni non attraversa le piazze e non può godersi un caffè seduto ai tavolini di un bar all’aperto e così via.

Più in specifico, esistono le fobie generalizzate (agorafobia e fobia sociale), fortemente invalidanti, e le comuni fobie specifiche, generalmente ben gestite dai soggetti evitando gli stimoli temuti, che si classificano così:

Tipo animali. Fobia dei ragni (aracnofobia), fobia degli uccelli o fobia dei piccioni (ornitofobia), fobia degli insetti, fobia dei cani (cinofobia), fobia dei gatti (ailurofobia), fobia dei topi, ecc..

Tipo ambiente naturale. Fobia dei temporali (brontofobia), fobia delle altezze (acrofobia), fobia del buio (scotofobia), fobia dell’acqua (idrofobia), ecc..

Tipo sangue-iniezioni-ferite. Fobia del sangue (emofobia), fobia degli aghi, fobia delle siringhe, ecc.. In generale, se la paura viene provocata dalla vista di sangue o di una ferita o dal ricevere un’iniezione o altre procedure mediche invasive.

Tipo situazionale. Nei casi in cui la paura è provocata da una situazione specifica, come trasporti pubblici, tunnel, ponti, ascensori, volare (aviofobia), guidare, oppure luoghi chiusi (claustrofobia o agorafobia).

Altro tipo. Nel caso in cui la paura è scatenata da altri stimoli come: il timore o l’evitamento di situazioni che potrebbero portare a soffocare o contrarre una malattia (vedi anche disturbo ossessivo-compulsivo e ipocondria), ecc. Una forma particolare di fobia riguarda il proprio corpo o una parte di esso, che la persona vede come orrende, inguardabili, ripugnanti (dismorfofobia).

E’ importante chiarire che il tipo di fobia da cui si è affetti non ha alcun significato simbolico inconscio e la paura specifica è legata unicamente ad esperienze di apprendimento errato involontario (non necessariamente ricordate dal soggetto), per cui l’organismo associa involontariamente pericolosità ad un oggetto o situazione oggettivamente non pericolosa. Si tratta, in sostanza, di un processo di cosiddetto “condizionamento classico”. Tale condizionamento si mantiene inalterato nel tempo a causa dello spontaneo evitamento sistematico che i soggetti fobici mettono in atto rispetto alla situazione temuta.

 
Lutto: insieme di processi psicologici, più o meno consapevoli, che vengono suscitati dalla perdita di una persona significativa (per esempio a causa della morte) che ha fatto parte integrante della nostra esistenza, dall’abbandono di un luogo caro, o dalla separazione geografica. Lo stato psicologico di lutto può derivare anche dalla perdita di una dimensione interiore, come ad esempio la perdita di una propria immagine sociale o un fallimento personale. Il processo di elaborazione della perdita richiede un certo periodo di tempo e si caratterizza per la presenza di alcune fasi che sembrano manifestarsi in maniera universale e costante; Kubler-Ross (1978) ha illustrato le seguenti cinque:
  1. Negazione = Fase iniziale di shock durante la quale la persona continua a cercare il proprio caro all’interno dell’ambiente e ne coglie la presenza;
  2. Patteggiamento = si comincia a sperare che il proprio caro ritorni e si fanno promesse affinché questo possa accadere realmente;
  3. Rabbia = di realizza che il proprio caro non ritornerà più e si reagisce a questo con rabbia verso se stessi, il destino, il mondo e gli altri;
  4. Depressione = consiste nella fase della profonda tristezza e disperazione relativamente all’irrimediabilità della morte;
  5. Accettazione = finalmente si comincia ad accettare la perdita e si ritorna alla vita pur conservando i ricordi che, seppur commoventi perdono man mano la capacità di produrre un forte dolore.

All’interno di questi momenti, è possibile rintracciare reazioni emotive che possono comparire in misura diversa in base alle caratteristiche di personalità o alla cultura di appartenenza degli stessi soggetti che hanno subito la perdita. Tra le reazioni emotive più diffuse, è possibile rintracciare: dolore intenso; rabbia, che a volte può essere diretta verso il soggetto o la condizione che ci ha provocato dolore; senso di colpa; auto-recriminazioni su quello che avremmo potuto o non potuto fare per evitare la perdita; depressione; tristezza.


Mania: elevazione improvvisa, instabile e solitamente di breve durata, del tono dell’umore che diventa suscettibile anche a modesti stimoli stressanti esterni che possono provocare rabbia, irritabilità, aggressività o profonda tristezza. Da un punto di vista fisico si caratterizza per un incremento dell’attività motoria e dell’energia, logorrea e comportamenti bizzarri; la persona riporta o si comporta coerentemente ad un vissuto di onnipotenza e questo può esporla a comportamenti rischiosi ed impulsivi. A livello cognitivo si evidenziano deficit di attenzione e di concentrazione e frequente è l’affollamento di idee nella mente del soggetto che può sfociare nella perdita totale dei nessi associativi.

Il contenuto del pensiero può oscillare da idee di grandezza, nelle forme più lievi, a veri e propri deliri, nelle forme più gravi. Nelle forme più gravi la mania può giungere ad una compromissione dello stato di coscienza con sintomi catatonici, in cui il flusso dei pensieri diventa talmente rapido da causare un blocco psichico ed un arresto psicomotorio (stupor maniacale).


Mobbing: situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, allo scopo di causare alla vittima danni di vario genere e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono anche portare ad invalidità psicofisica permanente. Il mobbing non andrebbe confuso con lo stress occupazionale, che, diversamente dal primo, è una situazione problematica, creata da uno stimolo negativo detto “stressor”, a cui l’organismo biologico e la mente cercano di far fronte.


Narcisismo: rappresenta l’amore che si prova per se stessi e deriva il nome dalla figura mitologia greca che, per il desiderio di abbracciare la propria figura riflessa nell’acqua, muore affogando. In ambito psicologico il narcisismo patologico prende il nome di Disturbo Narcisistico di Personalità; come ogni disturbo appartenente a questa categoria rappresenta un modello di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo, è pervasivo ed inflessibile, esordisce nell’adolescenza o nella prima età adulta e determina disagio o menomazione in uno dei livelli fondamentali della persona: sociale, familiare, scolastico/lavorativo. Esistono 3 categorie principali di Disturbi di Personalità che si distinguono sulla base dei sintomi che possono essere principalmente di tipo: bizzarro, ad alta emotività, o ansioso; il disturbo narcisistico rientra nel secondo gruppo. In quanto sindrome psicopatologica, si manifesta con una sensazione grandiosa di sé; chi ne soffre si sente unico, importante e diverso dagli altri; questo può portare la persona a richiedere fori attenzioni e ammirazione da parte degli altri e manca completamente di empatia, quindi non sottosta successivamente, ad una normale reciprocità sociale.

Naturalmente, si tratta di persone con doti spesso normali, quindi possono soffrire molto di non aver ricevuto l’approvazione che sentono di meritare, reagendo solitamente con sconcerto ed arroccandosi in una posizione difensiva e tendendo al rimuginio (più in termini depressivi che ansiosi). Talvolta possono reagire con rabbia alle critiche, ma più frequentemente la reazione è quella di vergogna e disorientamento. A questo può seguire il convincimento che non sono compresi da tutti e che quindi esistano persone speciali come loro, in grado di comprenderli a pieno; si riferiscono solitamente a persone altolocate e di prestigio che possano garantirgli i dovuti privilegi.

Sono persone fortemente manipolative perché completamente centrate su di sé e sulla ricerca incondizionata di assenso da parte degli altri, quindi si legano solo a persone che possano soddisfare questo bisogno; queste vengono idealizzate finché svolgono la loro funzione di rinforzo contingente e contribuiscono ad avvalorare il concetto di sé, mentre vengono totalmente svalutati qualora vadano a diminuire la frequenza o l’intensità di tale comportamento.


Nevrosi: disturbo psichico che si manifesta in assenza di causa organica e i cui sintomi sono interpretati dalla psicoanalisi come espressione simbolica di un conflitto che trova le sua radici nella storia del soggetto e che costituisce un compromesso tra un desiderio e la difesa alla realizzazione di tale desiderio. A partire dalla probabile introduzione del termine da parte del medico scozzese W. Cullen nel 1777 che lo utilizzò per indicare quelle affezioni di tipo funzionale che avevano una sede organica precisa, si è giunti, attraverso i contributi di P. Pinel e di J. M. Charcot che ne evidenziarono rispettivamente l’assenza di un substrato organico evidenziabile e la natura squisitamente psicologica, alla distinzione fatta da S. Freud (1894) tra nevrosi attuali e psiconevrosi. Le prime sarebbero determinate da conflitti attuali risultanti dall’assenza o dall’inadeguatezza del soddisfacimento sessuale, mentre le seconde affonderebbero le loro radici nella vita infantile del soggetto. Attualmente le nevrosi attuali sono sempre meno contemplate dalla nosografia sia perché anche i lori sintomi sembrano risalire ad un’età infantile, sia perché il loro carattere prevalentemente somatico induce ad inserirle tra i disturbi psicosomatici.

Il concetto di nevrosi in senso stretto è teso a concepire il disagio nevrotico come la manifestazione di un conflitto tra un’istanza repressiva ed una di libertà, che, al di là della sessualità, riguarda più in generale il concetto di sé, del suo sviluppo e del suo adattamento al mondo sociale, lungo l’intero arco della vita. Più spesso però il termine viene utilizzato come grande contenitore nosografico accanto a quello di psicosi, intendendo tutti i disturbi che non manifestano deliri od allucinazioni.


Nostalgia: dal greco νόστος (ritorno) e άλγος (dolore), esprime classicamente il dolore legato al desiderio di tornare in patria. Da un punto di vista più squisitamente psicologico, essa esprime anche il dolore connesso alla lontananza da persone care o da periodi o eventi di vita passata che si vorrebbero rivivere; può comparire nelle sindromi da separazione e può evolvere in un quadro depressivo.


Ossessione: pensiero, impulso o immagine mentale ricorrente e persistente, che causa ansia o disagio marcato e che viene vissuta come intrusiva ed inappropriata. La produzione di tale pensiero o immagine è spesso del tutto inaccettabile quindi la persona cerca di ignorarla od allontanarla dalla propria mente, talvolta mettendo in atto dei rituali in grado di neutralizzarla (compulsione). Naturalmente questa azione induce un decremento della sensazione ansiosa e spiacevole, inducendone quindi il rinforzo intrinseco: il pensiero mi fa soffrire, il metodo per ridurre il disagio diventa la “cura”. L’evitamento, seppure efficace in modo naif p la strategia fallimentare dell’ansia, che contribuisce solo alla sua cronicizzazione.

Il pensiero ossessivo si caratterizza per una modalità non intenzionale, suscettibile di critica da parte della persona che la sta sperimentando, che non riesce peraltro a liberarsene e lo vive con sentimenti di angoscioso fastidio. Il pensiero viene riconosciuto come proprio ma il contenuto è considerato inaccettabile e rifiutato perché vissuto come estraneo alla propria volontà ed al proprio modo di essere. Le aree di interesse più comuni delle ossessioni sono la sporcizia e le malattie, la violenza, altri tipi di mali che capitano alle persone, il sesso e la religione.


Paradosso: “Il paradosso è un’ambiguità sistematica capace di produrre l’indecidibilità tramite un’oscillazione riflessiva infinita tra livelli diversi di complessità” .

Affinché si determini un paradosso è necessaria la presenza di tutti questi elementi:

- ambiguità

- contraddizione

- appartenenza dei termini in contraddizione a livelli diversi di una gerarchia complessa

- autoriferimento

- oscillazione riflessiva (circolo vizioso) infinita

L’ambiguità

E’ sempre presente nelle interazioni e relazioni umane e riguarda soprattutto la comunicazione analogica. All’interno delle comunicazioni umane consiste nel presentare contemporaneamente un ampio numero di significati diversi e questo rappresenta uno strumento indispensabile nel modulare le espressioni di un’ affettività complessa come quella umana.

Permette una maggiore ricchezza espressiva e gioca un ruolo importante in molte attività creative, quali la fantasia, l’espressione artistica, l’umorismo.

La semplice presenza dell’ambiguità non dà luogo ad un paradosso, infatti è ancora possibile una scelta.

Contraddizione

Quando la relazione tra due persone assume una certa importanza ogni segnale ambiguo viene a configurarsi come una contraddizione tra due o più alternative diametralmente opposte.

La presenza di alternative contraddittorie suscita perplessità, dubbio, ma di per sé non porta a paradosso in quanto è ancora possibile effettuare una scelta tramite un procedimento per tentativi ed errori.

La presenza di ambiguità e di contraddizioni non impediscono di operare una scelta nell’insieme delle possibili forme di definizione della relazione, anche se tale scelta può essere talvolta difficile o dolorosa.

Appartenenza dei termini in contraddizione a livelli diversi di una gerarchia complessa

In una gerarchia di complessità il livello di complessità inferiore non si trova soltanto più in basso rispetto al superiore, ma è da esso contenuto, e il superiore è più complesso dell’inferiore, ma lo è meno del livello ancora superiore, che a sua volta lo contiene.

Quindi, in maniera un po’ simile a un gioco di scatole cinesi, il livello più elevato è anche il più complesso e contiene al suo interno tutti i livelli meno complessi.

Si determina un paradosso quando ambiguità e contraddizione che ne derivano si realizzano su due livelli differenti, ordinato secondo una gerarchia di complessità ovvero una gerarchia nella quale il livello inferiore non solo si trova più in basso, rispetto al superiore, come nelle gerarchie semplici, ma è contenuto in esso.

Autoriferimento

Ovvero la proprietà posseduta da un termine o da un messaggio di riferirsi a se stesso.

Ma l’autoriferimento pur se necessario non è di per sé sufficiente a dar luogo a un vero paradosso.

L’autoriferimento quando si verifica a ponte tra due differenti livelli di complessità può dar luogo ad un circolo vizioso, definito catena riflessiva.

Oscillazione riflessiva (circolo vizioso) infinita

Consiste nell’oscillazione all’infinito tra significati contraddittori appartenenti a differenti livelli di complessità, la quale ha per conseguenza l’indecidibilità.

Un paradosso diventa patogeno quando è presente l’assunzione di “totalità illegittima”, ovvero quando esso invade tutti i campi e pone l’individuo in una situazione di indecidibilità continua e infinita, ma anche quando esso scaturisce da due (o più) totalizzazioni che si incontrano. Una definizione o un’ingiunzione paradossale non hanno alcun effetto patogeno se non c’è qualcuno che attribuisca loro valore assoluto, interpretando in forma totalizzante l’assunzione di totalità illegittima fatta dall’altro.

Il paradosso terapeutico o controparadosso ha in comune con il paradosso la prima parte del percorso (ambiguità e contraddizione), ma non la catena riflessiva che genera indecidibilità. Esso attraverso un processo stocastico genera un nuovo apprendimento e quindi un cambiamento (catena ricorsiva). Il paradosso terapeutico si lega a quello patogeno interrompendo il circuito che conduce all’indecidibilità e riporta ad una catena ricorsiva che sembrava diventata inaccessibile.


Paranoia: in ambito clinico viene incorporata nel Disturbo Paranoide di Personalità, che si manifesta con comportamenti di tipo bizzarro e rientra per questo nel gruppo A di questa classe sindromica.

Chi soffre di questo disturbo ha una persistente tendenza ad interpretare in modo irrealistico (o quantomeno poco probabile) le intenzioni e le azioni degli altri, solitamente come umilianti o minacciose. Le persone sono percepite come intrusive, impiccione, critiche e poco gratificanti e di conseguenza le relazioni sono spesso evitate o comunque molto instabili. Vengono descritti come distaccati, isolati, guardinghi. Il termine utilizzato anche fuori dall’ambito propriamente clinico, mantiene le sue caratteristiche descrittive principali.

Nonostante la concentrazione sull’altro sia sempre molto alta, essa è volta ad osservare, non vi è una grande capacità di empatia ed è per questo che spesso le intenzioni sono fraintese.


Profezia che si autoavvera: è stata definita dal suo ideatore, Robert K. Merton (1948), come una “una supposizione o profezia, che, per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità”.

In altre parole, un’aspettativa, un pregiudizio, una supposizione, fanno sì che atteggiamenti e predisposizioni inconsapevoli inducano negli individui e negli eventi reazioni che confermano l’aspettativa o l’avvenimento presunto. In particolare, è possibile evidenziare tre passaggi attraverso i quali tale fenomeno si esplica:

  • a) le persone hanno aspettative nei confronti di un altro individuo;
  • b) queste influenzano il loro modo di agire nei suoi confronti;
  • c) le attese influenzano le risposte dell’individuo che adotta comportamenti coerenti con le attese originali, facendo in modo che queste si avverino.

Una possibile declinazione del fenomeno della Profezia che si auto avvera è il cosiddetto “Effetto Pigmalione”, descritto da Rosenthal, per cui le aspettative  degli insegnanti, nei confronti dei propri allievi, risultano determinanti nella riuscita scolastica degli stessi, in quanto gli atteggiamenti, anche inconsapevoli, che ne derivano fanno sì che i bambini si comportino proprio come atteso dal loro maestro.

L’effetto Pigmalione mette in evidenza come le aspettative possano condizionare la qualità delle relazioni interpersonali e il rendimento dei soggetti. Esso può manifestarsi in altri contesti, come quello lavorativo e quello familiare e in tutti quei contesti dove si sviluppino rapporti sociali.


Psicastenia: disturbo della sfera nevrotica caratterizzato da mancanza di energia psichica utile a prendere decisioni ed orientarsi verso i propri obiettivi, attualmente non più presente nella classificazione sindromica perché assimilato dal Disturbo Ossessivo-Compulsivo in cui si mantengono le stesse caratteristiche di indecisione anche se ben più complesso e caratterizzato, come suggerisce il nome, dalla presenza di ossessioni e compulsioni.


Psiologia analitica

Si ritiene erroneamente che la Psicologia Analitica di Carl Gustav Jung sia nata da una costola della psicoanalisi di Freud e che lo stesso Jung fosse allievo del maestro viennese: in realtà Jung elaborò una propria visione dell'inconscio autonomamente da Freud essendo entrato in contatto con Pierre Janet a Parigi alla fine dell'800, e lavorando presso l'ospedale psichiatrico di Zurigo (il Burgholzli) sotto la guida di Eugen Bleuler nei primi anni del '900.

Le ricerche condotte da Jung sul cosiddetto "esperimento associativo" contribuirono enormemente allo studio dei fenomeni inconsci, e portarono Jung a contattare nel 1906 Freud per confrontarsi sulle reciproche scoperte circa l'inconscio. Il padre della Psicoanalisi pensò di trovare in Jung il suo erede, ma dopo alcuni anni di collaborazione costruttiva ed intensa, arrivarono nel 1913 ad una rottura dolorosa per entrambi.

In quell'anno, con la pubblicazione del libro "Libido. Simboli della Trasformazione", Jung si distaccò da Freud sostenendo che la libido non è solamente energia sessuale, che mira a scaricarsi con il raggiungimento dell'oggetto desiderato, ma è invece l'energia psichica in toto; l'inconscio, inteso da Freud (almeno inizialmente) come mero ricettacolo del rimosso, è visto invece da Jung come una porzione della psiche che contiene altri contenuti che non sono mai stati parte della coscienza ed i cosiddetti "complessi" a tonalità affettiva, articolatisi nel corso delle relazioni significative; complessi che l'"esperimento associativo" era in grado di evidenziare.

L'osservazione empirica dei contenuti dei sogni, dei deliri di pazienti psicotici e del vastissimo materiale offerto dalla mitologia e dalla storia delle religioni spinse Jung a ipotizzare un ulteriore dimensione dell'inconscio che definì "inconscio collettivo", i cui contenuti chiamò archetipi. Il , struttura superiore che include l'Io ed alcune istanze degli archetipi rimossi, è stato visto come motore e scopo del cosiddetto "processo di individuazione".
Per la psicologia analitica junghiana, tale processo di individuazione archetipica costituisce la finalità dell'esistenza di ogni persona.

La psicoanalisi freudiana riconosce all'attività dell'inconscio ed al disturbo psichico delle cause, applicando all'indagine psicologica il modello concettuale ed il metodo di indagine meccanicistici tipici del positivismo ottocentesco. In questo senso, essa si definisce come scienza, postulando la possibilità di determinare la concatenazione di processi psichici che conducono al sintomo psicopatologico.

La psicologia analitica junghiana segue invece nella propria indagine un metodo finalistico, il cui obiettivo è la ricerca del senso dei processi inconsci e della sofferenza psichica. Di fondamentale importanza è la teoria del simbolo, inteso da Jung come motore dello sviluppo psichico e strumento di trasformazione dell'energia psichica, originato dal confronto della coscienza con l'inconscio ed i suoi contenuti. La dialettica tra conscio e inconscio è ciò che delinea il percorso analitico.

L'Inconscio-

L'inconscio personale non è, come per Freud, il "luogo del rimosso", cioè un contenitore psichico vuoto alla nascita, che man mano si popola di complessi causati da episodi traumatici infantili. Per Jung anzitutto l'inconscio non è "vuoto", ma è il contenitore di forme archetipiche universali ereditarie, all'interno del quale si organizzano le esperienze individuali.

Inoltre esso precede la formazione dell'Io cosciente, e contiene il progetto esistenziale dell'individuo che ne è portatore, come - diremmo oggi - una sorta di DNA psichico.

Idea non nuovissima, di ascendenza schiettamente neoplatonica, già presente, ad esempio, nelle fantasie di Michelangelo a proposito della figura da scolpire già "inscritta" nel blocco di pietra su cui stava lavorando. Quest'idea però non era ancora mai stata applicata alla scienza psicologica, come fece Jung.

Fermo restando che, per Jung come per Freud, l'inconscio non è direttamente osservabile, Jung enuncia una rappresentazione metaforica dell'inconscio come popolato da figure interiori, i cui rapporti e conflitti dialettici generano le dinamiche psichiche: Animus/Anima, Persona/Ombra, Puer/Senex e così via.

L'Analisi e il processo di individuazione -

Come ricorda Jung nella sua autobiografia Ricordi, sogni e riflessioni, parlando della situazione che aveva trovato all'inizio della professione nell'Ospedale Psichiatrico di Zurigo:
"Il medico trattava un paziente X con una lunga serie di diagnosi bell'e pronte ed una minuziosa sintomatologia. Il paziente era catalogato, bollato con una diagnosi, e, per lo più, la faccenda finiva così. La psicologia del malato mentale non aveva nessuna parte da adempiere."

L’innovazione che Jung portò nella pratica psichiatrica fu dunque innanzitutto la consapevolezza che la funzione del terapeuta non consistesse solo nell'applicare rigidamente un "metodo meccanico", ma nel porre attenzione alla "storia di vita" del paziente ed alle storie che egli stesso raccontava:
"Il solo studio della psichiatria non è sufficiente. Io stesso ho dovuto lavorare ancora molto prima di possedere il bagaglio necessario per la psicoterapia. Fin dal 1909 mi resi conto che non potevo curare le psicosi latenti se non capivo il loro simbolismo, e fu allora che mi misi a studiare la mitologia."

Jung si convinse presto, infatti, anche osservando i propri sogni, che nel sintomo nevrotico come nel delirio psicotico affiorino immagini e idee che non sono proprie personali del paziente, ma che gli pervengono da un "fondo arcaico", e le cui figure possono desumersi da culti, religioni e mitologie antichi appartenenti a tutti i popoli: sono gli archetipi, forme alla base dell'inconscio collettivo, condivise da tutta l'umanità, che costituiscono, nel campo psicologico, l'equivalente di ciò che in campo antropologico sono le "rappresentazioni collettive" dei primitivi, o, nel campo delle religioni comparate, le "categorie dell'immaginazione".

Le cause del disturbo psichico -

L'archetipo, in quanto forma, non agisce direttamente sulla psiche individuale, cioè sull'inconscio personale, ma attraverso l'emergere di azioni, pensieri e impulsi il cui simbolismo può non essere compreso e integrato dall'individuo, che lo pongono in conflitto con la società a cui appartiene e lo espongono ad una esclusione non desiderata e temibile come il manicomio e lo stigma di "follia".

La dinamica dualistica ed esclusiva tra Eros e Thanatos in cui Freud aveva individuato e confinato il motore energetico della nevrosi, in Jung si articola e si moltiplica in funzione della pluralità delle figure archetipiche che popolano l'inconscio.

Il sintomo non richiede più una spiegazione in chiave di causa-effetto, ma viene considerato esso stesso una "domanda di significato" rispetto al disagio soggettivo che esprime.

Il disturbo psichico smette così di essere considerato una malattia, e l'intervento analitico non viene più considerato solo una "cura"; ne consegue che la pratica psicologico-analitica junghiana non mira più ad una "guarigione", ma ad individuare il senso simbolico e archetipico del disturbo, e ad aiutare il suo portatore ad utilizzarne l'energia ai fini della "trasformazione" e della propria individuazione.

Lavorare con gli archetipi richiede certamente, come lo stesso Jung notava, molte conoscenze di tipo non clinico, perché richiede anche molta immaginazione: non nel senso del "fantasticare", ma nel senso dell'immaginazione creativa - quella che Giambattista Vico definiva la "logica poetica".

Poiché accompagnare il paziente in questa esplorazione richiede da parte del terapeuta un'attenzione non solo intellettuale, ma anche empatica (diceva Jung: "Se il medico e il paziente non diventano un problema l'uno per l'altro, non si trova alcuna soluzione"), è evidente che, in un'analisi junghiana, la psiche del terapeuta è "messa in causa" dall'analisi non meno di quella del paziente. Da questo punto di vista, la teoria della tecnica junghiana ha prefigurato alcuni dei più recenti sviluppi della psicoanalisi intersoggettiva.

Proprio in relazione a questa consapevolezza, Jung fu convinto fin dall'inizio della sua ricerca che il "mettersi in gioco" del terapeuta necessitava assolutamente di trovare supporto nell'analisi didattica e di controllo:

Il trattamento del paziente comincia, per così dire, dal medico: solo se questi sa far fronte a sé stesso ed ai suoi problemi, sarà in grado di proporre al paziente una linea di condotta.

Allo stesso modo, la riflessione sulla necessaria continuità del processo di supervisione, che dovrebbe essere una costante regolare del lavoro anche dei terapeuti più esperti, era stata efficacemente indicata con l'osservazione per cui: "Perfino il Papa ha bisogno di un Confessore."

Il problema della psicosi -

Anche in medicina l'idea che il paziente debba partecipare alla propria cura sforzandosi di assumere consapevolezza della propria malattia è la base di qualsiasi trattamento terapeutico, anche di tipo farmacologico.

Tutto ciò, con la maggior parte dei pazienti psicotici non è possibile, almeno nella fase delirante, durante la quale qualsiasi discorso interpretativo viene fatto loro non può essere recepito, ed anche gli interventi farmacologici devono a volte essere coattivi.

Rispetto a queste situazioni, l'intervento esclusivamente psicoterapeutico (della psicologia analitica, della psicoanalisi freudiana o degli approcci cognitivo-comportamentali) rischia frequentemente l'impasse. Pur essendo nate in contesti psichiatrici e dal confronto con pazienti psicotici, infatti, le varie correnti psicodinamiche, al pari di quelle cognitivo-comportamentali, in molti casi di grave sofferenza psicotica devono trovare spazi di integrazione con l'uso degli psicofarmaci.

Lo scopo dell'intervento psicologico-analitico o psicodinamico in tali situazioni diviene allora quello di aiutare a rendere "intelligibile" il senso della sofferenza del paziente e delle sue modalità espressive, non appena l'azione psicofarmacologica riesce a rendere di nuovo "accessibile" il suo spazio relazionale ed elaborativo.

Tutto ciò, con la maggior parte dei pazienti psicotici non è possibile, almeno nella fase delirante, durante la quale qualsiasi discorso interpretativo viene fatto loro non può essere recepito, ed anche gli interventi farmacologici devono a volte essere coattivi.

Rispetto a queste situazioni, l'intervento esclusivamente psicoterapeutico (della psicologia analitica, della psicoanalisi freudiana o degli approcci cognitivo-comportamentali) rischia frequentemente l'impasse. Pur essendo nate in contesti psichiatrici e dal confronto con pazienti psicotici, infatti, le varie correnti psicodinamiche, al pari di quelle cognitivo-comportamentali, in molti casi di grave sofferenza psicotica devono trovare spazi di integrazione con l'uso degli psicofarmaci.

Lo scopo dell'intervento psicologico-analitico o psicodinamico in tali situazioni diviene allora quello di aiutare a rendere "intelligibile" il senso della sofferenza del paziente e delle sue modalità espressive, non appena l'azione psicofarmacologica riesce a rendere di nuovo "accessibile" il suo spazio relazionale ed elaborativo.

Gli sviluppi -

Al momento attuale, si identificano tre "scuole" principali che si sono sviluppate a partire dalla psicologia analitica originale.

  • Scuola Classica: la scuola classica, che si riconosce principalmente nell'attività del C.G.Jung Institut di Zurigo, continua ad articolare e portare avanti la tradizione originale della psicologia analitica e del pensiero di C.G.Jung, enfatizzandone in particolare gli aspetti legati al processo di individuazione. Negli ultimi anni vi sono stati importanti scambi con la tradizione della psicoanalisi intersoggettiva. Tra i suoi esponenti "storici", Marie-Louise Von Franz.
  • Scuola Evolutiva: la scuola evolutiva, sviluppatasi in particolare in Inghilterra ad opera di Michael Fordham, propone una maggiore integrazione tra i modelli psicoanalitici relazionali e quelli propri della psicologia analitica. Ha approfondito in modo specifico lo studio delle prime fasi dello sviluppo infantile in ottica psicologico-analitica.
  • Scuola Archetipica: la scuola archetipica ha conosciuto una certa notorietà nel mondo della cultura psicologica e filosofica, soprattutto per via degli scritti critici di James Hillman, il suo fondatore e principale esponente. Nella scuola archetipica si pone grande attenzione ai significati simbolici archetipali; i suoi esponenti si sono avvicinati anche a tematiche proprie del pensiero narrativista e post-moderno.


Psicologia del lavoro: branca della psicologia che studia i comportamenti delle persone nei vari contesti e nelle varie attività lavorative e professionali, focalizzandosi in particolare sulle relazioni interpersonali, sulle mansioni ed i compiti da svolgere all’interno delle organizzazioni. Si ripropone di facilitare sia il benessere/salute dei lavoratori, che di garantire un certo vantaggio alle organizzazioni e di migliorare le competenze, la comunicazione, la motivazione, le relazioni sia interne che esterne. I campi d’applicazione della psicologia del lavoro e delle organizzazioni sono principalmente: la gestione del personale, la leadership, la selezione, la valutazione del potenziale, la formazione, la comunicazione, i rapporti, le dinamiche di gruppo, la motivazione al lavoro, il sistema premi-punizioni, lo sviluppo della carriera, la valutazione delle competenze.


Psicologo: laureato in psicologia che ha conseguito l’abilitazione mediante l’esame di Stato ed è iscritto all’apposito albo professionale. Si avvale dell’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito. Nello specifico, le sue aree di intervento sono: la psicologia clinica, la psicologia sociale applicata, la psicologia del lavoro e delle organizzazioni, la psicologia dello sviluppo e dell’educazione, la psicologia giuridica e forense, la psicologia penitenziaria e criminologica, la psicologia militare, la psicologia viaria, la psicologia delle emergenze, la psicologia dello sport, la psicologia del turismo, la psicologia della religione, la neuropsicologia.


Psicosi: al contrario di molti termini di natura psicologica, questo viene costantemente utilizzato in modo erroneo nella cultura popolare, associandolo ad una paura intensa ed immotivata (la psicosi della meningite, dell’influenza aviaria, della crisi), meglio attribuibile invece ad una “fobia”.

Per psicosi s’intende infatti un gruppo di disturbi mentali caratterizzati da un’alterata rappresentazione della realtà, da errori nel pensiero, nella percezione e negli stati emotivi, con conseguente produzione di comportamenti bizzarri. Disturbo psicotico per antonomasia è la Schizofrenia, ma si trovano in questa categoria altri disturbi come il Disturbo delirante, Disturbo schizofreniforme, Disturbo schizoaffettivo, Disturbo Psicotico breve, Disturbo psicotico condiviso (già noto come Folie a deux).

I disturbi psicotici si caratterizzano per la presenza di:

  • Sintomi positivi, ossia sintomi che “aggiungono” elementi alla realtà, come deliri, ossia pensieri illogici che però vengono sostenuti con convinzione, ed allucinazioni, propriamente percezioni senza oggetto, che possono coinvolgere tutti i sensi (vista, tatto, gusto, olfatto, udito).
  • Sintomi negativi, quindi che vedono una carenza in un determinato ambito, principalmente quello ideoaffettivo (pensieri ed emozioni): apatia, abulia, anaffettività, incapacità di pianificare gli obiettivi, ritiro sociale.
  • Disorganizzazione cognitiva e delle attività superiori come linguaggio e ragionamento.

Psicoterapeuta: psicologo o medico che ha conseguito una specializzazione almeno quadriennale in Psicoterapia, presso scuole riconosciute dal M.U.R.S.T. (Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica). Lo psicoterapeuta, oltre alle attività di prevenzione, diagnosi, sostegno e riabilitazione, svolge attività di cura attraverso gli strumenti e le tecniche terapeutiche proprie alla psicoterapia. Lo psicologo-psicoterapeuta non può prescrivere nessun tipo di farmaco al paziente. Se necessario si avvale della collaborazione di uno psichiatra che seguirà la persona nella parte farmacologica del suo percorso terapeutico.

Art. 35. della legge 56/1989: l’attività psicoterapeutica 1. In deroga a quanto previsto dall’articolo 3, l’esercizio dell’attività psicoterapeutica è consentito a coloro i quali o iscritti all’ordine degli psicologi o medici iscritti all’ordine dei medici e degli odontoiatri, laureatisi entro l’ultima sessione di laurea, ordinaria o straordinaria, dell’anno accademico 1992-1993, dichiarino, sotto la propria responsabilità, di aver acquisita una specifica formazione professionale in psicoterapia, documentandone il curriculum formativo con l’indicazione delle sedi, dei tempi e della durata, nonché il curriculum scientifico e professionale, documentando la preminenza e la continuità dell’esercizio della professione psicoterapeutica. 2. é compito degli Ordini stabilire la validità di detta certificazione.

Tali corsi di specializzazione devono: essere almeno quadriennali e prevedere un’adeguati formazione e addestramento in psicoterapia; sono attivati ai sensi del decreto n. 162 del Presidente della Repubblica del 10 marzo 1982, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti dal MURST con le procedure di cui all’articolo 3 del citato decreto.

Psicoterapia: branca specialistica della psicologia, costituisce uno strumento psicologico che produce delle modificazioni nella struttura cognitiva ed emotiva del soggetto. è una specializzazione sanitaria riservata a Medici e Psicologi iscritti ai rispettivi Ordini Professionali ed in Italia si consegue tale professionalizzazione mediante un percorso formativo quadriennale post lauream presso scuole universitarie o private riconosciute dal M.U.R.S.T. Essa è orientata da indirizzi teorici di riferimento tra cui possiamo citare gli indirizzi: psicoanalitico/psicodinamico; sistemico-relazionale, cognitivo-comportamentale, fenomenlogico-esistenziale ciascuno dei quali, pur essendo meglio indicato per alcune condizioni e non per tutte, può applicarsi d’elezione al lavoro terapico con i bambini, gli adolescenti, gli adulti, gli anziani, le coppie e le famiglie. Al centro di ogni indirizzo terapeutico si rileva un rationale specifico che guida il professionista e di conseguenza l’utente in un percorso caratteristico che ha stili e tempi diversi. Si distinguono infatti terapie lunghe (superiori ai 2 anni), medie (fino a 2 anni) e brevi (inferiori all’anno), fra le prime sicuramente quelle a fondamento psicoanalitico, nel mezzo l’indirizzo sistemico-relazionale (che ha dato ottimi risultati nell’ambito della terapia familiare) e cognitivo puro, ed infine le terapie cognitivo-comportamentali che per alcuni disturbi possono dare risultati entro i 6 mesi di trattamento.


Raptus: improvviso impulso intensissimo che può portare ad una momentanea perdita della capacità di intendere e di volere; può spingere il soggetto ad effettuare gesti violenti od aggressivi di tipo auto o etero-aggressivo. è quindi una turba episodica accessuale del comportamento gestuale e motorio che consiste nel bisogno incoercibile di compiere improvvisamente un gesto od un’azione violenta che risulta dannosa e che sfugge completamente al controllo vigile dell’attore.

Si distinguono:

  • Un raptus ansioso, che si registrerebbe nelle reazioni nevrotiche acute, con crisi di angoscia talmente invasiva che può concomitare con stato confusionale, crepuscolare, emergenze impulsive o amnesie dell’episodio critico.
  • Un automatismo psicotico, tipico invece di una bouffe delirante o di una sindrome confusionale; in questi casi l’atto avviene in una condizione onirica od oniroide, con compromissione più o meno accentuata dello stato di coscienza e del ricordo parziale, frammentato se non del tutto assente.
  • Un automatismo allucinatorio, presente all’interno di una sindrome confusionale, nell’ambito di un episodio dissociativo acuto o a seguito di un’allucinazione all’interno di un quadro schizofrenico.
  • Un impulso patologico, tipico invece delle psicosi organiche come Epilessia, Alcolismo cronico, Demenza ed Insufficienza Mentale.

Il raptus assume rilevanza in ambito di diritto penale, in quanto costituisce una momentanea incapacità e quindi una condizione di non imputabilità o comunque di attenuante, anche se questo non significa la “liberazione” dell’imputato che, può essere giudicato socialmente pericoloso e richiedere quindi misure cautelari alternative alla reclusione in carcere.


Resilienza: è la capacità di far fronte in maniera resistente, con forza maggiore, agli eventi traumatici o comunque negativi e di riorganizzare positivamente la propria vita di fronte alle difficoltà. Il termine deriva dall’ambito ingegneristico meccanico come la capacità di un materiale a resistere a sollecitazioni, urti e colpi, Alcuni autori concepiscono la resilienza come una funzione psichica che si modifica nel tempo, che può avere una certa predisposizione anche genetica, ma che si interfaccia continuamente con l’ambiente e le esperienze passate, i vissuti ed il modificarsi dei meccanismi mentali che ne stanno alla base,

una persona resiliente è quella che, totalmente immersa in una situazione per niente benevola, riesce a fronteggiare le contrarietà efficacemente, cercando di cogliere le opportunità positive che in tali circostanze continuano ad esistere, seppur celate.

La resilienza è un concetto importante soprattutto in ambito di Psicologia delle Emergenze e della Psicotraumatologia, in quanto ci si trova a lavorare con persone che, anche nella disgrazia improvvisa, sanno riemergere dalle difficoltà, cogliendo le possibilità dell’ambiente, della rete sociale e di loro stesse, per trovare la soluzione più funzionale ed adeguata.


Schizofrenia: Disturbo psicotico per antonomasia, si caratterizza per un progressivo distacco dall’ambiente sociale che può avvenire repentinamente o in maniera più lenta ed insidiosa. Il termine indica il sintomo principale ossia la dissociazione psichica ossia l’improvvisa incapacità ad utilizzare i comuni nessi logici fra cose, eventi o stati emotivi.

I sintomi della schizofrenia possono interessare tutte le funzioni che caratterizzano il comportamento, la cognizione e le emozioni della persona: la percezione, il pensiero, il linguaggio, la volontà, la creatività e talvolta tale influenza può apportare anche alcuni miglioramenti, fermo restando che si tratta di una malattia fortemente intrusiva, persistente e quindi frequentemente invalidante.

Generalmente vengono identificate due principali classi di sintomi, comuni a tutte le psicosi:

  1. I sintomi positivi o produttivi, che si distinguono in Deliri: pensieri e convinzioni assolute ed incontestabili radicate nel cervello del malato, ma prive di una base reale; e Allucinazioni: percezioni (perlopiù uditive) di stimoli del tutto irreali, come sentire voci che parlano di lui oppure di vedere oggetti che si muovono fino al punto di inseguirlo; e Disturbi del pensiero: pensiero dissociato, “furto” del pensiero, influenzamento del pensiero, neologismi, “insalata” di parole, tangenzialità.
  2. I sintomi negativi, rappresentati da: Disturbi dell’affettività: appiattimento affettivo, ambivalenza affettiva, contraddizione, autismo; Anedonia: mancanza di emozioni, abulia, isolamento e apatia. Lo schizofrenico perde progressivamente ogni interesse per quanto lo circonda e si chiude in se stesso, dimostrando una forte abulia nei confronti del mondo esterno. Non desidera più avere rapporti sociali, si estranea dal nucleo familiare e si chiude in un mondo tutto suo; Disturbi catatonici: completo immobilismo e mutismo, o esplosioni incontrollate di aggressività; catalepsia (ossia la possibilità di posizionare le membra del paziente in qualsiasi posizione).

Secondo il DSM IV-R è possibile formulare una diagnosi di Schizofrenia quando sono presenti due (o più) dei seguenti sintomi caratteristici, ciascuno presente per un periodo di tempo significativo durante un periodo di un mese (o meno se trattati con successo):

deliri;

allucinazioni;

eloquio disorganizzato (per esempio, frequenti deragliamenti o incoerenza);

comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico, bizzarrie comportamentali, manierismi, posture;

sintomi negativi, cioè appiattimento dell’affettività;

Infine, sempre secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, la schizofrenia si differenzia in 4 sindromi:

  • forma paranoide-allucinatoria: con una marcata prevalenza di deliri ed allucinazioni, naturalmente oltre ai sintomi principali. Spesso assume una forma acuta e comincia durante o dopo il quarto decennio di vita;
  • forma catatonica: i sintomi catatonici sono molto marcati. Anche i deliri e le allucinazioni sono possibili;
  • forma ebefrenica: si sviluppa quando il paziente è ancora giovane. Caratteristica è la sensazione di superficialità che questi pazienti irradiano. La prognosi è decisamente sfavorevole;
  • schizofrenia semplice: questo processo ha luogo lentamente ed in maniera non drammatica. Con il passare dei mesi e degli anni, il paziente perde l’impulso all’iniziativa, rende sempre di meno, riduce i contatti umani, ed infine sviluppa quasi solo i sintomi principali ed essenziali della schizofrenia. La prognosi è negativa. Il paziente non ha praticamente chance di tornare veramente sano.

Nella realtà vi sono diverse sfaccettature e sovrapposizioni per cui ogni persona affetta da questo disturbo tende ad essere una realtà fenomenologica distinta dalle altre; inoltre nelle sue sottoforme il disturbo tende a manifestarsi con veemenza soltanto durante crisi acute, alternando quindi momenti di relativo benessere nel quale però si manifestano i sintomi persistenti della malattia, che ha un andamento decisamente cronico.

Secondo i riscontri dell’Oms, una persona su tre guarisce completamente, un terzo dei pazienti deve invece essere sottoposto a un trattamento prolungato, che consente comunque di svolgere alcune attività anche se non permette il ritorno a una vita completamente normale. Infine, un terzo tende a diventare paziente cronico, con progressive difficoltà a conservare le normali relazioni sociali; è possibile seguire alcuni training specifici che consentono di aumentare il numero e migliorare la qualità di alcune abilità, da quelle sociali a vere e proprie competenze lavorative che possono quindi incidere favorevolmente sulla qualità della vita.

L’ipotesi di una causa genetica della schizofrenia non è ancora stata confermata, ma è noto che la familiarità sia un fattore di rischio rispetto alla popolazione generale. Studi su gemelli omozigoti dimostrano infatti che vi sono altri possibili fattori causali, come:

Ambiente sociale – La schizofrenia tende a manifestarsi soprattutto nelle fasce meno agiate della popolazione e con basso livello culturale. Tuttavia non si sa con precisione se questa condizione sociale è una causa o piuttosto un effetto della malattia.

Fattori familiari e psicosociali – Fin dagli anni Sessanta numerosi studi hanno indagato gli eventi stressanti maggiori rilevando che, le persone affette da Schizofrenia hanno subito un numero significativamente più elevato di eventi stressanti immediatamente prima l’esordio o la ricaduta e non ci si riferisce soltato ad uno stress personale ed individuale, ma anche a quello che può coinvolgere l’intera famiglia. Tra gli stressor cronici i più rilevanti sono un ambiente sociale troppo stimolante e quelli prodotti dai rapporti e dal clima familiare. Il costrutto di Emotività espressa si riferisce appunto al clima familiare e comprende l’ostilità verso il paziente, le critiche per il suo comportamento, l’insoddisfazione, ipercoinvolgimento emotivo (costante apprensione per tutto ciò che fa, intrusività ed iperprotetività), i commenti positivi, l’empatia ed il calore. Un clima familiare ad alta EE si caratterizza soprattutto per l’atteggiamento ostile, le frequenti critiche e l’ipercoinvolgimento emotivo, mentre nelle famiglie a bassa EE si osserva maggior empatia e calore, un atteggiamento supportivo e non intrusivo, commenti positivi su alcuni comportamenti, eventualmente insoddisfazione e preoccupazione per la sua condizione. Naturalmente il manifestarsi della malattia non è secondario a certa causa familiare, così come non si ha una natura completamente genetica; il problema tende però ad esacerbarsi innescando un circolo vizioso tra alta EE della famiglia e sintomi schizofrenici dell’ammalato.

Vulnerabilità – Attualmente viene considerata l’ipotesi causale più accreditata e si basa sulla presenza di una componente genetica predisponente su cui agirebbero elementi esterni in grado di “scatenare” la malattia. In pratica, chi si ammala sarebbe particolarmente esposto alla patologia per motivi genetici, ma solo le condizioni ambientali, come per esempio una difficile vita familiare o scolastica, potrebbero dare il via ai sintomi

Neurotrasmettitori alterati – I sintomi più gravi della schizofrenia (come i deliri) sono direttamente collegati a un aumento localizzato della dopamina, una sostanza chimica che ha il compito di favorire il passaggio dei segnali nervosi tra le cellule cerebrali, in alcune zone del cervello. In particolare, l’eccessiva attività stimolante della dopamina sarebbe presente nei punti di collegamento tra i neuroni, le cosiddette sinapsi. Da qui l’ipotesi biochimica della schizofrenia, che tuttavia viene ancora considerata tale perché non è ancora chiaro se l’eccessiva attività della dopamina sia una causa o una conseguenza della malattia.

L’insorgenza della schizofrenia non è quasi mai eclatante: possono verificarsi manifestazioni ossessive, come la sensazione di sentire odori strani o voci intorno sé. Nella maggior parte dei casi la malattia insorge in maniera molto subdola, e proprio questo rende molto difficile formulare una diagnosi precoce. In genere vi è una comparsa progressiva di segnali che debbono mettere in allarme e che ricordano in qualche modo i sintomi più tipici della depressione: sospettosità, chiusura in se stessi, perdita di interesse per le attività quotidiane, ecc. In questa fase è molto comune scambiare i primi segni della schizofrenia con un quadro depressivo, anche perché non si sono ancora manifestate le tipiche “dissociazioni” con l’ambiente. Sarebbe invece molto importante riuscire a identificare precocemente la malattia, perché si è visto che l’intervento terapeutico in fase iniziale offre risultati migliori nel trattamento.


Segreto professionale: Obbligo di fedeltà che comporta il mantenimento del segreto, al quale i professionisti che operano in tutti quegli ambiti di cura degli interessi dei cittadini, siano interessi legali, economici o sanitari, sono tenuti per legge ad adempire. Secondo l’Articolo 622 del codice penale: “Chiunque, avendo notizie, per ragioni del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino ad un anno o con la multa da …”.

A ribadire l’obbligo di riservatezza nell’ambito della salute mentale concorrono il Codice Deontologico Nazionale degli Psicologi ed il Codice di Deontologia Medica.

Gli articoli n.11 e n.12 del Codice Deontologico Nazionale degli Psicologi disciplinano questo ambito, conferendo al mantenimento del segreto professionale non solo un valore giuridico, ma anche etico.

Art. 11: “Lo psicologo è strettamente tenuto al segreto professionale. Pertanto non rivela notizie apprese in ragione del suo rapporto professionale, né informa circa le prestazioni professionali effettuate o programmate, a meno che non ricorrano le ipotesi previste dagli articoli seguenti.”

Art. 12: Lo psicologo si astiene dal rendere testimonianza sui fatti di cui è venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto professionale. Lo psicologo può derogare all’obbligo di mantenere il segreto professionale, anche in caso di testimonianza, esclusivamente in presenza di valido e dimostrabile consenso del destinatario della sua prestazione. Valuta, comunque, l’opportunità di far uso di tale consenso, al segreto professionale. Pertanto non rivela notizie, fatti, o informazioni considerando preminente la tutela psicologica dello stesso.”

Gli articoli 15 e 16 del Codice Deontologico Nazionale degli Psicologi impongono, inoltre, la tutela del paziente e la riservatezza anche in caso di interventi in collaborazione con altri soggetti anch’essi tenuti al segreto e di redazione di comunicazioni scientifiche. L’articolo 13, invece, impone cautele e limiti con riguardo a ciò che lo psicologo può esporre all’Autorità nell’adempimento dei suoi obblighi di referto o di denuncia.

E’ importante anche poter individuare la persona offesa dalla violazione del segreto. Spesso, infatti, la prestazione viene fornita a una persona diversa dal committente e potrebbe sorgere un conflitto tra i due soggetti, i quali potrebbero essere interessati in maniera diversa. L’articolo 4, comma 4 del Codice Deontologico Nazionale degli Psicologi sancisce il dovere di tutelare in maniera prioritaria, nel conflitto con il committente, il destinatario della prestazione.

Per quanto riguarda la figura del medico, l’obbligo del segreto professionale era previsto già nel giuramento di Ippocrate ed è stato successivamente tramandato fino ad oggi nelle vigenti norme deontologiche.

Secondo l’articolo 9 del Codice di Deontologia Medica, il medico deve mantenere il “segreto su tutto ciò che gli è confidato o che può conoscere in ragione della sua professione; deve, altresì, conservare il massimo riserbo sulle prestazioni professionali effettuate o programmate, nel rispetto dei principi che garantiscano la tutela della riservatezza.

La rivelazione assume particolare gravità quando ne derivi profitto, proprio o altrui, o nocumento della persona o di altri.

Costituiscono giusta causa di rivelazione, oltre alle inderogabili ottemperanze a specifiche norme legislative (referti, denunce, notifiche e certificazioni obbligatorie):

a) – la richiesta o l’autorizzazione da parte della persona assistita o del suo legale rappresentante, previa specifica informazione sulle conseguenze o sull’opportunità o meno della rivelazione stessa;

b) – l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute dell’interessato o di terzi, nel caso in cui l’interessato stesso non sia in grado di prestare il proprio consenso per impossibilità fisica, per incapacità di agire o per incapacità di intendere e di volere;

c)- l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi, anche nel caso di diniego dell’interessato, ma previa autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali.

La morte del paziente non esime il medico dall’obbligo del segreto.

Il medico non deve rendere al Giudice testimonianza su ciò che gli è stato confidato o è pervenuto a sua conoscenza nell’esercizio della professione.

La cancellazione dall’albo non esime moralmente il medico dagli obblighi del presente articolo.”



Somatizzazione: meglio noto disturbo di somatizzazione si caratterizza con un quadro di ricorrenti lamentele fisiche multiple, clinicamente significative ossia che comporta la ricerca di un trattamento medico (spesso farmacologico) e che causa una significativa menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo od altre aree importanti della vita di un individuo. Si tratta di un disturbo incluso nella grande categoria dei Somatoformi, si presenta prima dei 30 anni di età e persiste per alcuni anni, affinché sia possibile farne la diagnosi. Inoltre il dolore deve presentarsi in almeno 4 loci diversi o funzioni (quindi non sono tutti derivanti dalla stessa attività, per esempio vari dolori legati alla sessualità, piuttosto che ad un’intensa attività fisica o psichica) ed inoltre devono essere presenti almeno due sintomi gastro-intestinali che non siano semplicemente il dolore. Solitamente si osserva nausea e vomito, meno la diarrea, in assoluto la minor frequenza si ha invece per l’intolleranza al cibo. Queste persone, al contrario dei Disturbi Fittizi, hanno problemi di natura organica specifici e molto intensi che però hanno origine psichica, ma, poiché spesso vengono misconosciuti non è infrequente trovarli con una documentazione di indagine clinico-fisiche ben dettagliata. Lo stato di salute è talmente compromesso e la persona tanto esasperata da sottoporti ad indagini anche invasive e dolorose pur di venire a capo del problema. Affinché la diagnosi sia corretta, oltre ai disturbi gastro-intestinali si deve registrare almeno un disturbo o una funzione nella sfera sessuale o riproduttiva che non sia solo il dolore, compresa l’assenza di desiderio sessuale, anche se questo sintomo può presentarsi come conseguenza del Disturbo. Il comportamento delle persone con Disturbo di somatizzazione può essere molto impulsivo, con linguaggio colorito e toni esasperati e questo può indurre a pensare che il disturbo sia inventato o esagerato per l’ottenimento di un vantaggio secondario, ma questo non è invece riscontrabile. All’esame fisico possono essere presenti dei disturbi reali, ma non risultano mai sufficienti a giustificare il grado e la frequenza delle lamentele.

Stress: condizione, cui l’individuo è sottoposto per un certo periodo di tempo, che implica un dispendio di energie superiore alle risorse personali tale da mettere in pericolo il suo benessere. Storicamente, gli studiosi che si sono occupati del fenomeno hanno enfatizzato ora il ruolo dell’ambiente esterno come fattore determinante l’esperienza dello stress (modello dello stimolo), ora i fattori interni all’individuo come determinanti le risposte di stress (modello della risposta). Attualmente viene ribadita l’importanza dell’interazione tra fattori interni all’individuo e stimoli esterni nel determinare l’esperienza dello stress e la risposta ad esso (modello transazionale). Secondo il modello transazionale lo stress rappresenta un processo che implica continui aggiustamenti, transizioni, tra ambiente e individuo, il quale viene oggi considerato come agente attivo in grado di scegliere delle strategie cognitive, emozionali, comportamentali da mettere in atto di fronte all’evento stressante. La valutazione delle strategie da mettere in campo per fare fronte allo stress si sviluppa attraverso due principali processi: valutazione cognitiva primaria e valutazione cognitiva secondaria. La prima corrisponde alla fase in cui l’individuo valuta il significato dell’evento stressante e stabilisce se esso rappresenti una minaccia per il suo benessere psico-fisico. La seconda corrisponde, invece, alla valutazione delle risorse disponibili e delle capacità di fronteggiare l’evento stressante. Farnè (1999) ha proposto una distinzione tra eustress e distress, definendo il primo come quel grado di stress che non danneggia la salute e che addirittura può contribuire a migliorarla, facendoci trovare e godere di successi e trionfi. Il distress, al contrario, è stato definito come condizione che genera nell’organismo una richiesta eccessiva a livello fisico e psichico e che si caratterizza per presenza di fattori quali ansia, disagio, tensione psicologica ed emozionale, reazioni negative o non adeguate agli eventi stressanti, che rendono l’individuo estremamente vulnerabile. Lo stress psicologico esprime una componente estremamente soggettiva: nessun evento significativo può essere considerato a priori come stressante, ma viene classificato come stressante nella misura in cui noi lo percepiamo come tale.

Stress occupazionale: forma di disagio occupazionale, essenzialmente di due tipi: lo stress derivante dalla natura stessa del lavoro e lo stress organizzativo. Il primo si verifica in professioni che sono stressanti per sé o per le responsabilità che implicano. Il secondo riguarda specifici problemi organizzativi, ovvero l’impostazione generale specifica del lavoro (distribuzione dei carichi di lavoro tra diverse unità operative, ritmi, pause, turni, insufficienza o inadeguatezza della formazione, ergonomia).

E’ stata individuata, in letteratura, anche un’altra forma di disagio organizzativo, denominata straining. Essa consiste in una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre a essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer). Lo straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma sempre in maniera discriminante.


Test: noto anche come reattivo psicodiagnostico, è uno strumento che permette di misurare aspetti del pensiero e del comportamento in modo più o meno mirato a seconda dello scopo. In ambito clinico si tende ad utilizzare sia test standardizzati che non, mentre solo i primi sono considerabili accettabili ai fini di una ricerca o indagine più precisa. Si distinguono test di livello, che misurano quindi delle specifiche competenze e vengono spesso utilizzati in ambito di Orientamento allo studio o al lavoro, così come i test di attitudine che possono evidenziare le potenzialità, anche a livello di personalità, capacità di lavorare in gruppo, rendimento sotto stress e così via. In ambito clinico e forense prevalgono i test di personalità come il MMPI-2, pubblicato per la prima volta da Hathaway e McKinley nel 1942, revisionato ed arricchito grazie all’intervento di Butcher e Williams. Il test è stato standardizzato anche in una versione italiana e viene utilizzato per delineare quadri psicopatologici specifici; le scale emergenti dalla somministrazione rilevano sintomi di tipo ipocondriaco, depressivo, isterico, paranoico, psicastenico, schizofrenico e maniacale. è possibile rilevare un atteggiamento più o meno femminile, in termini più di ruolo sociale che di orientamento sessuale, ed una certa tendenza all’introversione ed al ritiro sociale. Il test ha misure di validità molto sofisticate e data la sua lunghezza, risulta particolarmente difficile simularne i risultati senza venir scoperti. Scale aggiuntive permettono di valutare l’autopercezione dei sintomi ed alcune tendenze specifiche verso le dipendenze.

Se il test MMPI si definisce strutturato, in quanto fornisce stimoli chiari e specifici, altri test di personalità, utilizzati e largamente accettati soprattutto in ambito infantile, si basano proprio sull’ambiguità dello stimolo offerto il quale dovrebbe rilevare un’interpretazione ed un significato psicologico personale. I test proiettici consentirebbero di delineare indirettamente le caratteristiche strutturali della vita psichica e delle dinamiche cognitive ed affettive del soggetto ed il loro limite sta nell’interpretazione che poi deriva il clinico, anche se si stanno delineando linee guida sempre più precise e standardizzate.

Tra i più noti test proiettivi naturalmente il Rorschach, caratterizzato da tavole con delle immagini ambigue ed il TAT (Thematic Apperception Test).

Fra i test utilizzati nei contesti organizzativi, in specifico durante i processi di selezione del personale, sicuramente uno dei più utilizzato è il 16PF di Cattell per la semplicità di compilazione e per la completezza dei risultati ottenibili, tra l’altro adoperabile anche in contesti di tipo clinico.

I test d’intelligenza vengono utilizzati per verificare la deviazione del quoziente intellettivo rispetto ad un campione normativo per età e sesso. Il più comune è senz’altro la WAIS, applicabile in ragazzi dai 16 in poi, mentre esiste una versione per bambini in età scolare (WISC) ed in età pre scolare (WPSSI). Il test fornisce un valore di intelligenza globale a partire da 2 scale subcliniche di natura verbale e di performance, ma anche un indice di deterioramento mentale.

Simili ai test di intelligenza esistono poi quelli per individuare le abilità residue e vengono utilizzati principalmente nei casi di Demenza, patologia che implica un’importante attivazione nel mantenere le abilità possedute al momento della diagnosi e nel migliorare quelle che hanno subito un peggioramento (memoria, linguaggio, orientamento spaziale, riconoscimento di persone o luoghi).


Vantaggio secondario: comunemente allo stato di malattia si attribuisce una condizione conseguente sia individuale che familiare, che si costituisce come una condizione che gioca un ruolo importante nel mantenimento della malattia stessa. Ogni condizione morbosa, sottintende, talvolta malgrado chi ne è affetto o i suoi familiari, un vantaggio secondario ossia una situazione favorevole che la malattia porta con sé. A volte le persone od i familiari sembrano aver ben compreso quale vantaggio ci sia in un disturbo di natura psicologica, primo fra tutti l’attenzione ricevuta, altre risulta invece più difficile da riconoscere, ma è sempre presente. La ricerca del vantaggio secondario è fondamentale per il superamento di alcuni disturbi, se non di tutti e va sempre indagato con attenzione da parte del clinico, perché può costituire un serio ostacolo alla guarigione. Talvolta, in una coppia, la malattia svolge una funzione di rassicurazione per chi non ne è affetto, basti pensare al ruolo accudente/accudito, ai casi di agorafobia con un partner altrimenti molto geloso, all’ansia da prestazione sessuale, quando la partner ha uno specifico disturbo sessuale, per esempio di natura algica. In questi casi il vantaggio sta nella dinamica della coppia più che nel paziente stesso, che invece può trarre giovamento dall’essere accudito, scusato per alcune mancanze, al centro dell’attenzione e così via.




"Alla resa dei conti il fattore decisivo è sempre la coscienza, che è capace di intedere le manifestazioni inconsce e di prendere posizione di fronte ad esse".


                                                                  
                                                                         Carl Gustav Jung


 
 
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