Glossario
Glossario dei termini usati in psicologia ripreso dal sito www.osservatoriopsicologia.it e da wikipedia
Agorafobia:
Disturbo che può presentarsi
isolatamente od in comorbilità con il disturbo di panico ed altri
disturbi d’ansia caratterizzato dalla preoccupazione patologica che
possa succedere qualcosa di negativo allontanandosi dal proprio “posto
sicuro”, solitamente la casa. Si traduce frequentemente in una paura di
sentirsi male all’esterno delle mura casalinghe e di non venir soccorsi
adeguatamente e comporta una forte riduzione delle interazioni sociali.
Alessitimia
Il termine “alexitimia” fu utilizzato
per la prima volta da Peter Sifneos e John Nemiah agli inizi degli anni
’70 sulla base delle osservazioni cliniche di pazienti che soffrivano di
disturbi psicosomatici e fu definito operativamente a seguito della XI
Conferenza Europea sulle Ricerche Psicosomatiche, nel 1976. Indica la
mancanza di parole per esprimere le emozioni ed è caratterizzata da un
insieme di deficit della competenza emotiva ed emozionale, che si
manifesta con l’incapacità di mentalizzare, percepire, riconoscere, e
descrivere verbalmente i propri e gli altrui stati emotivi (Galimberti,
2006). Tale disturbo viene attualmente considerato anche come un
possibile deficit della funzione riflessiva del Sé. I soggetti
alessitimici, nonostante l’apparente buon adattamento sociale, tendono
anche a stabilire relazioni di forte dipendenza o, in mancanza di essa,
preferiscono l’isolamento. Per tale ragione l’alessitimia è stata
associata ad uno stile di attaccamento insicuro-evitante, caratterizzato
da un bisogno talvolta ossessivo di attenzioni e cure e da un
adattamento alla realtà sociale spesso di tipo conformistico.
Allucinazioni
Consistono nella percezione di stimoli
che non esistono ma che vengono ritenuti reali – in assenza dello
stimolo esterno, è il cervello a produrre lo stimolo sensoriale,
riproponendo immagini, suoni, odori. Se prodotte dall’attivazione di una
singola modalità sensoriale, vengono definite semplici; se prodotte
dall’attivazione di più modalità sensoriali, vengono definite complesse.
Possono essere di vario tipo, tra cui:
- visivo
(allucinazioni elementari e non differenziate, dette fotomi,
come lampi colorati, bagliori luminosi, forme geometriche; allucinazioni
più complesse, come oggetti o animali in movimento, persone, corpi,
scene naturali, etc.);
- uditivo
(allucinazioni semplici, dette acoasmi, come fruscii, sibili,
ronzii, fischi, note musicali; allucinazioni complesse come voci,
discorsi, canti);
- olfattivo e gustativo
( riguardano rispettivamente odori e sapori insoliti);
- tattile
(allucinazioni spesso associate a quelle visive, si localizzano sulla
superficie cutanea dando la sensazione di punture, bruciature, di
formicolio causato dal brulicare di insetti sotto la pelle. Possono
essere acute e discontinue, o continue);
- somato-cenestesico
(allucinazioni semplici o più complesse che riguardano sensazioni
intra-corporee come brividi, impressione di paralisi e percezione
alterata del proprio corpo).
Possono manifestarsi in condizioni di
psicopatologia sistemica e neurologica, di deprivazione sensoriale, di
stimolazione elettrica della corteccia cerebrale, di alterazione dello
stato di coscienza, in fase di addormentamento (allucinazioni
ipnagogiche) e di risveglio (allucinazioniipnopompiche).
In particolare, in caso di disturbi
psichiatrici (in particolare della schizofrenia, ma talvolta della
depressione maggiore, dello stato maniacale e del disturbo
dissociativo), sono molto diffuse le allucinazioni di tipo uditivo, ma
possono manifestarsi anche quelle di altro tipo, coinvolgendo qualsiasi
altra modalità sensoriale. Secondo Carlson (2001) «l’allucinazione
schizofrenica tipica è rappresentata da voci che si rivolgono
all’individuo, talvolta per ordinargli di fare qualcosa, talvolta per
rimproverarlo; in certi casi le voci pronunciano voci bizzarre o prive
di senso» (pag. 565).
Ansia:
Si definisce come anticipazione
apprensiva di un evento negativo che si manifesta a diversi livelli:
somatico, comportamentale, cognitivo ed emozionale. Dal
punto di vista somatico, il corpo prepara l’organismo ad affrontare la
minaccia (una reazione d’attacco/fuga): la pressione del sangue e la
frequenza cardiaca aumentano, la sudorazione aumenta, il flusso
sanguigno verso i più importanti gruppi muscolari aumenta e le funzioni
del sistema immunitario e quello digestivo diminuiscono; sul piano
emozionale ne deriva un senso di terrore; a livello comportamentale
possono manifestarsi azioni più o meno volontarie diretti alla fuga o
comunque all’allontanamento dalla fonte d’ansia; cognitivamente i
pensieri sono maladattivi e tendono ad incrementare lo stato di ansietà
in una sorta di “mantra” ripetitivo ed ingravescente.
Ansia
da anticipazione
Detta anche ansia anticipatoria, è uno
stato di preoccupazione che prepara la persona ad affrontare una
determinata situazione. Diviene patologica quando è così intensa da
paralizzare la persona rendendola incapace di reagire o comunque porta
ad un deterioramento della prestazione stessa. Frequente nella maggior
parte dei disturbi d’ansia assume connotazioni agorafobiche nell’omologo
disturbo o nel disturbo di panico.
Ansia
da prestazione
Tipo di ansia che nasce dalla paura di
non essere all’altezza di un compito o di una prestazione che è regolata
da standard personali e sociali ben definiti e di essere giudicati
negativamente dagli altri come conseguenza di questo fallimento. Viene
spesso associata ad una prestazione di tipo sessuale, ma può presentarsi
in ogni circostanza che la persona consideri valutativa.
Ansia
da separazione
Si manifesta come eccessivo stato di
ansia del bambino ogni qual volta venga lasciato da una figura di
riferimento (spesso la madre) in un ambiente sicuro, anche per
partecipare ad attività ludiche (altrimenti si parla di fobia
scolastica). Il bambino lamenta irrealistiche ed irragionevoli paure che
possa verificarsi qualcosa di terribile a lui o ai propri cari durante
il periodo di allontanamento.
Ansiolitici
Psicofarmaci in grado di sedare i
sintomi ansiosi con attività immediata, a medio o a lungo termine,
possono essere somministrati anche come coadiuvanti negli stati
d’Insonnia. Possono avere effetti miorilassanti (rilassamento muscolare)
ed anticonvulsivanti soprattutto ad alti dosaggi.
Si suddividono in ansiolitici
benzodiazepinici e non benzodiazepinici sulla base della presenza, nel
composto clinico, di un anello benzenico, una struttura esagonale legata
ad un anello diazepinico, costituito da 7 atomi. La classificazione dei
diversi tipi si basa sull’affinità per alcuni recettori cerebrali
(GABA) e per l’emivita, ossia la durata degli effetti e della sostanza
stessa nel sangue del soggetto che la assume.
Sebbene la loro somministrazione sia
attualmente molto diffusa solo alcune figure professionali potrebbero
adeguatamente supervisionare un trattamento (psichiatra, il
neuropsichiatra infantile ed il neurologo).
Sono farmaci che inducono assuefazione,
quindi durante il trattamento la persona non ha lo stesso effetto
iniziale assumendo la stessa dose del prodotto, ma deve aumentarla.
Generalmente si sviluppa tolleranza all’effetto ipnotico del farmaco,
che quindi non diventa più efficace nel trattamento sistematico
dell’insonnia, mentre, anche per un certo effetto placebo associato
all’assunzione, può continuare ad essere efficace “al momento” negli
stati ansiosi.
Il farmaco induce infatti dipendenza
ossia si sono osservati stati di disagio psicologico ed una vera e
propria sindrome somatica qualora non venga assunto in un breve periodo
(1-2 settimane). Il 50% dei pazienti cui è stato prescritto il diazepam
per 6 mesi ad un dosaggio terapeutico utile hanno sviluppato dipendenza
fisica con molti effetti collaterali all’interruzione dell’uso.
Antidepressivi:
psicofarmaci che innalzano il tono dell’umore. Hanno questo nome poiché
vengono impiegati soprattutto nel trattamento della depressione, ma
trovano largo impiego anche in ambiti diversi (trattamento
dell’eiaculazione precoce ad es.). Possono essere di diversi tipi
ed hanno modalità di somministrazione e tempi di azione diversi anche se
in generale piuttosto lunghi. Possono essere somministrati da qualunque
medico anche se solo lo psichiatra, il neuropsichiatra infantile ed il
neurologo sono da considerarsi le figure professionali di riferimento
per intraprendere questo percorso terapeutico, il quale non dovrebbe mai
essere inferiore ai 6 mesi di tempo, perché questa è la latenza media
di effetto dei prodotti.
Dall’inizio del trattamento entro 2 mesi
(4-6 settimane) si osserva di solito uni inizio di remissione
sintomatologica, mentre gli effetti collaterali possono essere presenti
fin dalle prime settimane; è necessario continuare il trattamento per
almeno ulteriori 4 mesi e, qualora sia indicato, tentare lo scalaggio
graduale il mese successivo. Non è infatti indicato fare una cura con
Antidepressivi inferiore ad un anno o con dosaggi troppo bassi, in
quanto non servirebbe a nulla!
Gli Antidepressivi si suddividono in
diverse categorie, si ricordano i Triciclici (i primi sperimentati, che
prevedono principalmente effetti collaterali antimuscarinici: fauci
secche, stitichezza, etc,), Inibitori della MAO (un acceleratore di
demolizione di sostanze che solitamente sono carenti nei Depressi), gli
SSRI ed SNRI che sono farmaci selettivi nel reperimento cerebrale di
Serotonina o Noradrenalina, fortemente carenti, soprattutto in
determinate aree del cervello dei pazienti con Depressione e non privi
di effetti collaterali; uno di essi consiste nella riduzione del
rilascio di Dopamina, che porta ad un appiattimento cognitivo. Negli
uomini possono dare disfunzioni erettili, diminuzione del desiderio
sessuale e anorgasmia, per questo motivo possono essere impiegati nei
disturbi sessuali come l’eiaculazione precoce; più in generale si sono
poi osservati disturbi gastrointestinali.
Attacchi
di panico: Si definiscono come un periodo di paura o disagio
intensi, tipicamente con un inizio improvviso e solitamente della durata
inferiore ai trenta minuti. I sintomi includono tremore, respirazione
accelerata e superficiale, sudore, nausea, vertigini, iperventilazione,
sensazioni di formicolio, tachicardia, sensazione di soffocamento.
Paura, ansia, angoscia e terrore, sono
emozioni molto simili, non sempre distinguibili. Ciò che le accomuna è
il loro contenuto cognitivo e la reazione somatica associata: durante
l’attacco di panico le persone cominciano a credere che stia per
accadere loro qualcosa di terribile e pericoloso, tanto da far impazzire
o morire o perdere il controllo (contenuto cognitivo); tale convinzione
personale induce una reazione di allarme particolare che permette di
combattere o fuggire e che, in ogni caso, tende ad opporsi al pericolo
incombente più o meno reale che sia (reazione somatica). La
realizzazione del comportamento induce il rinforzo dello stesso, per cui
la persona, sentendo ridurre i sintomi allontanandosi da una certa
situazione continuerà ad evitarla e questo indurrà alla creazione di una
mappa mentale di “zone sicure” in cui il panico non può manifestarsi
che diventano sempre più limitate nello spazio. Il disturbo di panico si
riferisce ad una sintomatologia caratterizzata da attacchi frequenti e
continuati. Al contrario è possibile aver avuto un solo attacco di
panico, senza che tale disturbo tenda a cronicizzarsi.
Caratteristica principale degli attacchi
di panico è che la persona sente di avere un problema sul piano fisico,
spesso una malattia fulminante come un infarto od un ictus e non
riconosce la natura psicologica di essi; per questo motivo le diagnosi
vengono spesso fatte dagli infermieri dei pronto soccorsi, o dalla
guardia medica.
Il trattamento d’elezione per gli
attacchi di panico è di tipo psicoterapeutico, anche se in alcuni casi
può essere utile la combinazione con una terapia farmacologica.
Autostima:
valutazione che una persona dà di se stessa, strettamente dipendente da
come essa si percepisce in rapporto agli altri e da come vorrebbe
essere. In termini accademici si definisce come la discrepanza tra Sé
percepito e Sé ideale; il primo è caratterizzato da ciò che la persona
pensa di avere o non avere, è una valutazione quantitativa delle doti,
anche se fortemente interpretativa; il secondo è invece quella persona
che si vorrebbe diventare. è chiaro dunque che i livelli di autostima
dipendono da una realistica interpretazione di entrambi questi Sé e
dalla capacità di porsi obiettivi personali positivi e raggiungibili.
Avere buoni livelli di autostima
significa valutare se stessi in modo equo e sapersi porre obiettivi di
miglioramento possibili e stimolanti che verranno perseguiti con
passione e non con l’ansia del fallimento.
Il concetto di Autostima è strettamente
legato a quello di Autoefficacia, ossia la convinzione
delle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni
necessarie per gestire adeguatamente le situazioni che si incontreranno
in un particolare contesto, in modo da raggiungere gli obiettivi
prefissati.
Se l’autoefficacia è un costrutto
abbastanza limitato, l’autostima è una stima globale; per esempio un
calciatore professionista potrebbe vedere un abbassamento della sua
autoefficacia come giocatore di scacchi, dopo aver perso una partita con
un amico, ma non perderebbe per questo la propria autostima.
Perdere il proprio senso di
autoefficacia in campi diversi, che spaziano da abilità specifiche a
caratteristiche più personali, possono comportare un abbassamento
dell’autostima che può trasformarsi da temporaneo a permanente, qualora
non si prevedano situazioni di rinforzo positivo, anziché di fallimento.
Benzodiazepine:
sono farmaci ansiolitici e ipnotici tra i più usati. Si legano ai
recettori delle benzodiazepine a livello del complesso recettoriale
chiamato GABA agendo, si presuppone, sui circuiti dell’amigdala. Si
usano prevalentemente per ansia a breve termine, per quella più
prolungata si preferiscono gli SSRI. Si usano anche per incrementare gli
effetti degli anti-psicotici o degli stabilizzatori dell’umore
(utilizzati in alcuni disturbi del tono dell’umore).
Riportiamo i farmaci più comuni divisi
in gruppi sulla base dei tempi di azione:
Emivita maggiore di 48 ore:
Diazepam (Valium, Ansiolin, Tranquirit,
Noan)
Delorazepam o Clordemetildiazepam (En)
Nordazepam o Desmetildiazepam (Madar,
Stilny)
Clordiazepossido (Librium)
Prazepam (Prazene, Trepidan)
Flurazepam (Dalmadorm, Flunox)
Clobazam (Frisium)
Quazepam (Quazium)
Estazolam (Prosom)
Halazepam o Alazepam (Paxipam)
Medazepam (Nobrium)
BDZ a durata d’azione intermedia –
Emivita compresa tra 24 e 48 ore:
Bromazepam (Lexotan, Compendium)
Clotiazepam (Tienor, Rizen)
Nitrazepam (Mogadon)
Flunitrazepam (Darkene, Roipnol)
Clonazepam (Klonopin, Klonapin,
Rivotril)
Cinolazepam (Gerodorm)
Estazolam (ProSom, Eurodin)
Pinazepam (Domar)
Tofisopam (Emandaxin, Grandaxin)
Cloxazolam (Lubalix, Sepazon, Olcadil)
BDZ a breve durata d’azione – Emivita
minore di 24 ore:
Alprazolam (Xanax, Frontal, Valeans,
Mialin)
Lorazepam (Tavor, Control, Lorans,
Ativan e Trapax)
Lormetazepam o Metillorazepam (Noctamid,
Minias)
Oxazepam (Serpax, Limbial)
Clotiazepam (Rizen, Tienor)
Ketazolam (Anseren)
Loprazolam (Dormonoct)
Temazepam o metiloxazepam (Restoril,
Normison, Euhypnos)
Tetrazepam (Mylostan)
Camazepam o comazepam (Albego, Limpidon,
Paxor)
Adinazolam (Deracyn)
Gidazepam
BDZ a durata d’azione brevissima –
Emivita da 1 a 7 ore
Brotizolam (Lendormin)
Midazolam (Ipnovel, Dormicum)
Triazolam (Halcion, Songar)
Etizolam (Depas, Pasaden)
Doxefazepam (Doxans)
Hanno effetti collaterali sul fegato e
sull’emocromo, possono dare dipendenza sia fisica che psicologica se
utilizzati per terapie superiori ai 6 mesi e senza un adeguato controllo
di un esperto.
Burn-out:
risultato patologico di un processo stressogeno che colpisce
coloro che esercitano «professioni di aiuto» (ma viene attualmente
esteso a molte professionalità “al pubblico”) quali psicologi,
psichiatri, assistenti sociali, infermieri. Psicologicamente rappresenta
il tipo di risposta ad una situazione avvertita come intollerabile, in
quanto l’operatore percepisce una distanza incolmabile tra quantità
delle richieste rivoltegli dagli utenti, e risorse disponibili
(individuali e organizzative) per rispondere positivamente a tali
richieste. Ne deriva un senso di impotenza acquisita, dovuta alla
convinzione di non poter fare nulla per eliminare l’incongruenza tra ciò
che si ritiene che l’utente si aspetti e ciò che si è in grado di
offrirgli. Tale senso di impotenza dà luogo ad uno stato di logoramento e
di stress psicofisico, che rende gli operatori meno attenti e
disponibili nei confronti degli utenti.
La sindrome del burn-out rappresenta,
dunque, un fenomeno molto complesso. Esso può avere diverse
manifestazioni che hanno la specificità di riguardare la sfera
lavorativa e che si caratterizzano per una combinazione di
reazioni generiche allo stress con specifici sintomi comportamentali e
di modificazione degli atteggiamenti:
- Sintomi fisici, quali fatica, frequenti mal di testa, disturbi
gastrointestinali, insonnia, cambiamenti nelle abitudini alimentari, uso
di farmaci;
- Sintomi psicologici, ad esempio, senso di colpa, negativismo,
alterazioni dell’umore, scarsa fiducia in sé, irritabilità, scarsa
empatia e capacità di ascolto;
- Reazioni comportamentali sul luogo di lavoro, quali assenze o
ritardi frequenti, tendenza ad evitare contatti telefonici e a rinviare
gli appuntamenti, scarsa creatività, ricorso a procedure standardizzate;
- Cambiamenti di atteggiamento nei confronti dei pazienti, quali
chiusura difensiva al dialogo, cinismo, spersonalizzazione nei rapporti,
distacco emotivo e indifferenza ai problemi dell’altro.
Il Burn-out implica dei costi
elevati per tutti i soggetti coinvolti nella gestione dei servizi: gli
operatori, che pagano il loro disagio in termini personali, spesso con
somatizzazioni, frustrazioni, dispersione di risorse, sottoutilizzo di
potenzialità; gli utenti, per i quali un rapporto con operatori
«bruciati» (letteralmente burned) risulta frustrante,
inefficace o dannoso; la comunità, che vede vanificati forti
investimenti in ambito sociale e nei servizi pubblici.
Compulsione:
comportamento ripetitivo o azione mentale che la persona si
sente costretta ad eseguire per ridurre il disagio causato dai pensieri
ossessivi o per scongiurare il verificarsi di una qualche calamità. Si
osserva sovente nel disturbo ossessivo-compulsivo.
Coscienza:
Il termine Coscienza deriva dal latino Cum-scire (“sapere
insieme”) ed indicava originariamente un determinato stato
interiore di sintonia tra i tre centri (centro intellettivo”, “centro
motore-istintivo” e “centro emozionale”) che, se raggiunto, permetteva
all’uomo di elevare la propria ragione.
La coscienza è un concetto complesso che
non si può riassumere in un’unica definizione, in quanto essa viene
intesa in modi diversi a seconda dell’ambito di studio preso in
considerazione: psicologico, neurofisiologico, filosofico, etico,
morale. Ciascuna disciplina pone l’accento su aspetti diversi, da quelli
fisiologici a quelli comportamentali, filosofici, morali, fornendo
definizioni parziali e limitate al proprio campo d’indagine.
In senso moderno, il termine è stato
introdotto da Leibniz che distinse les petites perceptions,
cioè la somma degli stimoli subliminali, dall’aperception
attraverso cui le percezioni arrivano a livello cosciente.
Wernicke localizzò l’ aperception,
intesa come consapevolezza della propria sensibilità, come “organo”
nella corteccia cerebrale, come fosse un’entità a sé. A questa
definizione si contrappose Wundt affermando che “la coscienza
consiste nel fatto di constatare in noi stessi certi stati e fenomeni,
la coscienza stessa non è uno stato o condizione suscettibile di
separazione da tali processi interiori” (1873-1874). Queste due
posizioni sono esemplari della direzione assunta dallo studio della
coscienza in ambito psicologico e neurofisiologico, da un lato intesa
come un fenomeno qualitativo della psiche, dall’altro come entità
fisiologica neurofisiologicamente localizzabile.
In ambito neurofisiologico, con
l’introduzione dell’elettroencefalografia e il progredire delle
conoscenza in ambito medico, si sviluppò la tesi della coscienza
caratterizzata da uno stato di vigilanza e uno stato di consapevolezza.
Il primo, descrivibile con precisi indici fisiologici, non è
necessariamente associato alla consapevolezza di sé e dell’ambiente
circostante, come nel caso dello stato vegetativo.
In ambito psicologico nella sua
accezione più generale si può intendere la coscienza come un’esperienza
soggettiva o cosciente di vita interiore o di vissuto. L’esperienza
cosciente è parte dell’attività della mente, quest’ultima intesa come
totalità di fenomeni psichici attuali o potenziali, o più in generale
come elaborazione simbolica di segnali o informazioni.
Secondo Jaspers la coscienza ha tre
significati:
- 1) l’interiorità dell’esperienza vissuta; l’incessante
manifestazione dell’anima (o psiche), anche in assenza di scissione tra
l’io e il soggetto, come puro sentire che non è cosciente né di sé, né
dell’oggetto;
- 2) è un sapere qualcosa o coscienza oggettiva, basata sulla
scissione soggetto/oggetto, ove soggetto è colui che percepisce,
rappresenta, pensa;
- 3) autoriflessione o coscienza che si ha di se stessi.
A ciò si contrappone l’inconscio inteso:
1) come ciò che non esiste
interiormente, non essendo un’esperienza vissuta;
2) ciò che non viene conosciuto come
oggetto, anche se può essere stato inconsapevolmente percepito e come
tale esercitare la sua influenza a distanza;
3) ciò che non è giunto alla conoscenza
di se stesso.
Jaspers sottolinea che la vita psichica
non può essere compresa né come sola coscienza né dalla coscienza
soltanto, dovendosi sottintendere alla vita psichica veramente vissuta
una struttura extracosciente.
In ambito psicoanalitico la coscienza,
anche se in maniera marginale, costituisce anche per Freud il punto di
partenza per la giustificazione dell’inconscio. “Che parte rimane
nella nostra esposizione alla coscienza, che un tempo era onnipotente e
ricopriva tutto il resto? Nient’altro che quella di organo di
senso per la percezione di qualità psichiche“. Nella distinzione
tra Es, Io Super-Io, Freud evita di identificare la coscienza con
l’Io limitandosi a stabilire un semplice legame di appartenenza della
coscienza all’Io. L’Io, è quell’ istanza psichica che scarica gli
eccitamenti sul mondo esterno ed esercita il controllo su tutti i
processi parziali, anche durante il sonno, la coscienza ad
esso legata durante il sonno dorme, mentre l’Io continua a vigilare.
Anche per Jung lo psichico non coincide
con la coscienza: “La coscienza è la funzione o l’attività che
mantiene il rapporto di contenuti psichici con l’Io. La coscienza non è
identica alla psiche, in quanto la psiche rappresenta la totalità di
tutti i contenuti psichici, i quali non sono di necessità collegati
tutti direttamente con l’Io, ossia non sono con l’Io in un
rapporto tale che ad essi spetti la qualità della consapevolezza”.
Il filosofo Hamilton afferma: ” La
coscienza non può essere definita: noi possiamo sapere perfettamente ciò
che è la coscienza, ma non possiamo comunicare agli altri senza
confusione una definizione di ciò che noi stessi afferriamo. La ragione è
semplice: la coscienza si trova alla radice della cono
Depressione:
più correttamente Depressione Maggiore è un disturbo della classe del
Tono dell’Umore, caratterizzato in primo luogo da un umore depresso per
la maggior parte del giorno, per la maggior parte dei giorni in un range
di tempo pari a due settimane. Durante il periodo depressivo si
osservano modificazioni di tipo fisiologico: nell’irrorazione sanguigna
cerebrale e della regolazione di alcuni neurotrasmettitori; di tipo
comportamentale: rallentamenti o agitazione, mancanza di energie,
cambiamenti nel sonno e nell’alimentazione (con le conseguenze che
comportano); di tipo cognitivo: frequenti pensieri negativi, fino a
quelli di morte o di suicidio, sensazione di essere inutile, difficoltà
di concentrazione.
Disturbo
di Personalità:
nel DSM-IV-TR, un Disturbo di
Personalità (DP) è definito in generale, come:
“Un modello abituale di esperienza
interiore e di comportamento, che devia marcatamente rispetto alle
aspettative della cultura dell’individuo (…), risulta inflessibile e
pervasivo, in una varietà di situazioni personali e sociali (…),
determina un disagio clinicamente significativo e compromissione
del funzionamento sociale, lavorativo e di altre aree importanti
(…), è stabile e di lunga durata, e l’esordio può essere fatto risalire
almeno all’adolescenza o alla prima età adulta”.
Un modello abituale è uno “stile” di
personalità, rappresenta cioè, una sorta di filtro attraverso
il quale la persona interpreta il proprio mondo interiore, il mondo
esterno, gli altri e tutte le contingenze della propria vita. Nel DP
tale modello è pervasivo e inflessibile e non si modifica in base ai
cambiamenti ambientali, diventando pertanto invalidante per il soggetto
che, tuttavia, non ne avverte la stranezza o l’incoerenza. Tale modello
non risulta, inoltre, meglio giustificato come manifestazione o
conseguenza di un altro disturbo mentale e non risulta collegato agli
effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., una droga di
abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale (per es., un
trauma cranico).
Le manifestazioni del comportamento e
dell’esperienza interiore del soggetto con DP si esprimono nei seguenti
quattro domini:
- 1. Cognitività:
compromissione del modo di percepire, interpretare, dare valutazioni
obiettive del proprio mondo interiore e degli altri, delle relazioni
interpersonali e sociali.
- 2. Affettività:
alcuni disturbi presentano un tipo di affettività inibita, coartata,
inespressa, altri disturbi, al contrario manifestano in modo eccessivo e
amplificato la propria emotività.
- 3. Controllo degli impulsi:
i disturbi relativi al controllo degli impulsi si dislocano lungo una
sorta di continuum, che va da un estremo di ipercontrollo, all’estremo
opposto, di deficit inibitorio.
- 4. Funzionamento
interpersonale.
Tutti i DP sono disadattivi e presentano
difficoltà di relazione, o di efficienza lavorativa o scolastica, i
pazienti con DP fanno fatica a mantenere un lavoro, spesso ne cambiano
diversi, o non lavorano affatto, si sposano meno di altri pazienti, o
mai, divorziano più spesso. Se confrontati tra loro, i diversi DP,
mostrano differenti livelli di impoverimento del funzionamento generale:
i pazienti gravi presentano livelli inferiori di funzionamento sociale,
lavorativo e personale, rispetto a pazienti che possono avere
livelli di compromissione significativi, anche in una sola area di
funzionamento. Infine si è notato che, anche al migliorare delle
condizioni psicopatologiche, nei DP, al contrario di quanto accade nei
disturbi dell’umore o d’ansia, possono perdurare le difficoltà di
adattamento sociale e il livello di funzionamento generale: questo,
verosimilmente, a causa del lungo perdurare di sintomi e comportamenti
disfunzionali che hanno per troppo tempo compromesso le relazioni e lo
sviluppo sociale della persona.
Disturbo Borderline di Personalità
Il termine borderline deriva dall’antica
classificazione dei disturbi mentali, raggruppati in nevrosi e psicosi,
e significa letteralmente “linea di confine” etimologicamente originato
dal fatto che tale disturbo era riferito a pazienti con personalità
marginali che funzionano “al limite” della psicosi pur non giungendo
agli estremi.
Le formulazioni del manuale DSM IV, come
le classificazioni più moderne internazionali (ICD-10) hanno ristretto
la denominazione di disturbo borderline fino a indicare quella patologia
i cui sintomi sono la disregolazione emozionale e l’instabilità del
soggetto.
Il disturbo borderline di personalità è
caratterizzato da vissuto emozionale eccessivo e variabile, e da
instabilità riguardanti l’identità dell’individuo di cui uno dei sintomi
paradigmatici è la paura dell’abbandono. I soggetti borderline soffrono
di crolli della fiducia in sé stessi e dell’umore, attuando condotte
autodistruttive e distruttive delle loro relazioni interpersonali.
Alcuni individui possono soffrire di momenti depressivi acuti anche
estremamente brevi, ad esempio pochissime ore, ed alternare
comportamenti normali. La caratteristica dei pazienti con disturbo
borderline è, inoltre, una generale instabilità esistenziale. La loro
vita è caratterizzata da relazioni affettive intense e turbolente che
terminano bruscamente, e il disturbo ha spesso effetti molto gravi
provocando “crolli” nella vita lavorativa e di relazione dell’individuo
Dal punto di vista clinico
i pazienti appaiono quasi sempre in stato di crisi e tale fenomenologia
rende la persona assolutamente imprevedibile. Raramente gli individui
con disturbo borderline realizzano in pieno le loro capacità. La natura
tormentata della loro vita si riflette in ripetuti atti autodistruttivi.
Possono procurarsi automutilazioni per sollecitare aiuto dagli altri,
per esprimere rabbia o per cercare di attutire sentimenti soverchianti.
Sentendosi sia dipendenti sia ostili questi soggetti hanno relazioni
interpersonali tumultuose: possono essere dipendenti dalle
persone cui sono legati ed esprimere un’enorme rabbia nei confronti dei
loro amici quando vengono frustrati. D’altro lato, non riescono a
tollerare la solitudine e preferiscono una frenetica ricerca di
compagnia, indipendentemente da quanto possa essere insoddisfacente, al
rimanere da soli. Per alleviare la solitudine, anche se solo per brevi
periodi, accettano l’amicizia di persone estranee o hanno comportamenti
promiscui. Spesso lamentano una cronica sensazione di vuoto
e di noia e la mancanza di un senso coerente di identità (diffusione
dell’identità); quando sono sottoposti a pressione, spesso si lamentano
di quanto si sentono depressi per la maggior parte del tempo, malgrado
il fermento degli altri affetti.
Si osserva talvolta in questi pazienti
la tendenza all’oscillazione del giudizio tra polarità opposte, un
atteggiamento dicotomico che non conosce mediazioni o negoziazioni. Ogni
persona con cui il soggetto entra in relazione viene categorizzata come
o completamente buona o completamente cattiva. Essi percepiscono gli
altri come figure protettive, cui legarsi strettamente, oppure come
persone odiose e sadiche, che li deprivano dei bisogni di sicurezza e
minacciano di abbandonarli ogni volta che si sentono dipendenti. Come
conseguenza di questa scissione, le persone buone vengono idealizzate e
quelle cattive svalutate. Il disturbo compare nell’adolescenza e
concettualmente ha aspetti in comune con le comuni crisi di identità e
di umore che caratterizzano il passaggio all’età adulta, ma avviene su
una scala maggiore, estesa e prolungata determinando un funzionamento
che interessa totalmente anche la personalità adulta dell’individuo.
Il disturbo di personalità borderline si
presenta in una varietà di contesti e per porre la diagnosi di
Disturbo Borderline di Personalità secondo il DSM-IV (American
Psychiatric Association, 1994) devono essere presenti, simultaneamente,
almeno cinque fra nove criteri diagnostici. I nove criteri, che
riguardano gli stili di comportamento e gli atteggiamenti emotivi
abituali del paziente, sono:
1) forte sentimento di instabilità e
incertezza circa la propria identità,
2) paura cronica di essere abbandonati,
3) drammatica instabilità nelle
relazioni affettive,
4) marcata reattività dell’umore (rapide
oscillazioni del tono emotivo fra depressione, euforia, irritabilità e
ansia),
5) frequenti esperienze di collera
immotivata,
6) cronici sentimenti di vuoto
interiore,
7) transitori ma ricorrenti sintomi
dissociativi (depersonalizzazione, amnesie lacunari, stati oniroidi di
coscienza) oppure di ideazione paranoide,
8) comportamenti auto-lesivi impulsivi e
incontrollabili (abbuffate compulsive, promiscuità sessuale senza
attenzione a rischi di infezioni o di gravidanze indesiderate,
cleptomania, abusi di alcool e droghe, ferite auto-procurate),
9) minacce o tentativi ricorrenti di
suicidio.
La complessità delle valutazioni
diagnostiche necessarie per identificare, più che sintomi psichiatrici
ben definiti (come l’ansia, la depressione, le fobie, le condotte
alimentari abnormi, le ossessioni e il delirio) stili di comportamento
ed atteggiamenti emozionali – i quali inevitabilmente sfumano, nei
diversi candidati alla diagnosi, dai limiti della normalità all’evidente
patologia – contribuiscono ai dubbi sulla legittimità di elevare il
Disturbo Borderline di Personalità al rango di categoria nosografica
distinta e ben definita. In effetti, basandosi sui criteri del DSM-IV, è
spesso impossibile discriminare con chiarezza il Disturbo Borderline di
Personalità da altri disturbi di personalità, soprattutto dello spettro
impulsivo.
Disturbo Paranoide di Personalità
Caratteristiche
Il Disturbo Paranoide di Personalità
appartiene al cluster A, che comprende i disturbi paranoie, schizoide e
schizotipico, ed è contraddistinto da caratteristiche di eccentricità e
stranezza. In accordo con recenti suggestioni della letteratura, che
descrivono i DP in continuità con la Personalità normale e con i
disturbi in asse I, è importante sottolineare che una modalità di
pensiero leggermente paranoide non è di per sé patologica e può svolgere
una funzione nello sviluppo dell’individuo e nell’organizzazione
dell’esperienza. Si parla di disturbo Paranoide, quindi, quando la
modalità di pensiero diventa pervasiva e rigida, quando cioè il modello
di comportamento e di pensiero paranoide si manifesta in molteplici
situazioni e ambiti della vita della persona e quando tale modello di
comportamento e pensiero (stile) risulta inflessibile, resistente al
cambiamento e all’apprendimento, ovvero non funzionale per
l’adattamento.
La caratteristica principale del
Disturbo Paranoide di Personalità è un’estrema sfiducia e sospettosità.
Le persone con questo disturbo assumono che gli altri li sfruttino, li
danneggino o li ingannino, anche di fronte a prove contrarie a queste
aspettative, sospettano, sulla base di prove insignificanti o
inesistenti, che gli altri complottino contro di loro; dubitano, senza
giustificazione, della lealtà e della affidabilità di amici o colleghi,
le cui azioni vengono esaminate minuziosamente per evidenziare
intenzioni ostili. Gli individui con questo disturbo sono riluttanti ad
entrare in intimità con gli altri, poiché temono che le informazioni che
confidano vengano usate contro di loro e per questo motivo possono
rifiutarsi di rispondere a domande personali. Leggono significati
nascosti umilianti e minacciosi in rimproveri o altri fatti benevoli.
Per esempio, possono malinterpretare un onesto errore da parte di
qualcuno, come un tentativo deliberato di imbroglio, o possono vedere un
rimprovero scherzoso come un grave attacco. I complimenti vengono
spesso fraintesi, possono vedere un’offerta di aiuto come una critica al
fatto che non stanno facendo abbastanza bene da soli.
Le persone con il disturbo paranoide
provano costantemente risentimento e sono incapaci di dimenticare
insulti, offese o ingiurie, che pensano di avere ricevuto. Piccole
offese provocano grande risentimento, i sentimenti ostili persistono per
molto tempo e reagiscono con rabbia agli insulti percepiti. Possono
essere gelosi in modo patologico, spesso sospettano che il coniuge o il
partner sia infedele, senza una giustificazione adeguata. Possono
raccogliere prove per supportare le loro convinzioni di gelosia; possono
pretendere di mantenere un controllo completo delle relazioni intime
per evitare di essere traditi, e mettere in dubbio i luoghi in cui si
trova, le azioni, le intenzioni, e la fedeltà del coniuge o partner. Le
persone co DP Paranoide hanno difficoltà ad andare d’accordo con gli
altri e spesso hanno problemi nelle relazioni strette. La loro eccessiva
sospettosità e ostilità possono essere espresse con una chiara
polemica, con lamentele ricorrenti. Per il loro atteggiamento sospettoso
possono agire in modo guardingo, misterioso o tortuoso, ed apparire
“freddi” e privi di sentimenti positivi. Sebbene possano sembrare
obiettivi, razionali e privi di emotività, spesso dimostrano labilità
affettiva con predominanza di espressioni ostili, ostinazione e
sarcasmo. Poiché gli individui con il Disturbo Paranoide di Personalità
non hanno fiducia negli altri, mostrano un’eccessiva necessità di essere
autosufficienti e un forte senso dell’autonomia. Per la rapidità a
contrattaccare in risposta alle minacce presunte, possono essere
litigiosi e frequentemente coinvolti in dispute legali, possono mostrare
fantasie grandiose e irrealistiche, spesso si impegnano in
argomentazioni di potere e rango e tendono ad elaborare stereotipi
negativi degli altri, particolarmente di coloro che appartengono a
gruppi di popolazione distinti dal proprio. Possono essere percepiti
come “fanatici”, e fondare “culti” o gruppi strettamente aggregati con
altri che condividono i loro sistemi di convinzioni paranoidi. In
risposta allo stress, gli individui con questo disturbo possono
presentare episodi psicotici brevi (che durano da minuti a ore).
Disturbo Schizoide di Personalità
Caratteristiche
Le caratteristiche essenziali del
Disturbo Schizoide di Personalità consistono in modalità pervasive di
distacco nelle relazioni sociali e una gamma ristretta di esperienze e
di espressioni emotive nei contesti interpersonali. Tale modalità
compare nella prima età adulta ed è presente in una varietà di
contesti.
Gli individui con Disturbo Schizoide di
Personalità sembrano non desiderare l’intimità, appaiono indifferenti in
merito a stabilire relazioni strette, e non sembrano trarre molta
soddisfazione dal far parte di una famiglia o di altro gruppo sociale.
Non sono interessati, nè traggono piacere dalle relazioni sessuali con
altre persone. Preferiscono passare il tempo da soli e appaiono
socialmente isolati, scegliendo quasi sempre attività o passatempi
solitari, che non implicano l’interazione con gli altri, ad esempio
prediligono lavori in cui sia ridotto il contatto con gli altri,
preferiscono compiti meccanici o astratti, come giochi al computer o
matematici. Vi è di solito una ridotta capacità di provare piacere per
esperienze sensoriali, fisiche o interpersonali. Questi individui non
hanno amici stretti o confidenti, eccetto, a volte, un parente di primo
grado. Gli individui con Disturbo Schizoide di Personalità spesso
sembrano indifferenti sia all’approvazione che alle critiche degli
altri, non rispondono appropriatamente alle condotte sociali, tanto da
apparire socialmente inetti o superficiali e assorbiti da se stessi.
Possono mostrare ridotta reattività emotiva, e raramente ricambiano
gesti o espressioni del volto, come sorrisi o cenni del capo. Affermano
di provare di rado forti emozioni, come rabbia e gioia, o sono incapaci
di manifestarle. Comunque, in circostanze molto insolite, in cui questi
individui si trovino almeno temporaneamente a proprio agio nel rivelare
se stessi, possono riconoscere di avere sentimenti dolorosi. La terapia
di questo disturbo è molto difficile, in quanto chi ne è affetto non ne
riconosce la necessità, non prova disagio e raramente richiede aiuto, a
differenza di ciò che si verifica nel Disturbo Evitante, che soffre per
l’isolamento. Il confine con la schizofrenia è molto lieve e la diagnosi
differenziale fra il disturbo di personalità e la psicosi è difficile.
Il disturbo non si manifesta
esclusivamente durante il decorso della Schizofrenia, di un Disturbo
dell’Umore con Manifestazioni Psicotiche, di un altro Disturbo
Psicotico, o di un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo, e non è dovuto
agli effetti fisiologici diretti di una condizione medica generale.
Fobia: paura
estrema, irrazionale e sproporzionata per oggetti, situazioni o
attività che non rappresentano di per sé una reale minaccia e verso cui
la maggior parte delle persone si confronta senza particolari
difficoltà. Chi ne soffre, infatti, è sopraffatto dal terrore all’idea
di venire in contatto con il proprio oggetto fobico, spesso un animale
innocuo come un ragno o una lucertola, o di fronte alla prospettiva di
compiere un’azione che lascia indifferenti la maggior parte delle
persone (ad esempio, il claustrofobico non riesce a prendere l’ascensore
o la metropolitana, o più in generale a trovarsi in piccoli ambienti
chiusi). Si tratta comunque di condizioni che in generale non sono
considerate come estremamente piacevoli da quasi nessuno: in molti non
amano gli insetti, dividere spazi angusti con altre persone, parlare di
fronte ad una folla immensa e così via. La differenza tra il fastidio ed
il disturbo vero e proprio, sta nel fatto che le persone che soffrono
di fobie si rendono perfettamente conto dell’irrazionalità di certe
reazioni emotive, ma non possono controllarle e quindi il tentativo di
evitarle e le manifestazioni fisiologiche che compaiono in tali
circostanze sono irresistibili.
La presenza dell’oggetto fobico, o
talvolta anche solo il pensiero di esso, induce alcuni sintomi
fisiologici come tachicardia, disturbi gastrici e urinari, nausea,
diarrea, senso di soffocamento, rossore, sudorazione eccessiva, tremito e
spossatezza. Si sta male e si desidera una cosa sola: fuggire!
Scappare, d’altra parte, è una strategia
di emergenza. La tendenza ad evitare tutte le
situazioni o condizioni che possono essere associate alla paura, sebbene
riduca sul momento gli effetti della paura, in realtà costituisce una
micidiale trappola: ogni evitamento, infatti, conferma
la pericolosità della situazione evitata e prepara l’evitamento
successivo (in termini tecnici si dice che ogni evitamento rinforza
negativamente la paura). Tale spirale di progressivi evitamenti produce
l’incremento, non solo della sfiducia nelle proprie risorse, ma anche
della reazione fobica della persona, al punto da
interferire significativamente con la normale routine dell’individuo,
con il funzionamento lavorativo o scolastico oppure con le attività o le
relazioni sociali. Chi ha la fobia dell’aereo può trovarsi, ad esempio,
a rinunciare a molte trasferte, e la cosa diventa imbarazzante se è
necessario spostarsi per lavoro. Chi è terrorizzato dagli aghi e dalle
siringhe può rinunciare a controlli medici necessari o privarsi
dell’esperienza di una gravidanza. Chi ha paura dei piccioni non
attraversa le piazze e non può godersi un caffè seduto ai tavolini di un
bar all’aperto e così via.
Più in specifico, esistono le fobie generalizzate
(agorafobia e fobia sociale), fortemente invalidanti, e le comuni fobie specifiche,
generalmente ben gestite dai soggetti evitando gli stimoli temuti, che
si classificano così:
Tipo animali. Fobia dei ragni (aracnofobia),
fobia degli uccelli o fobia dei piccioni (ornitofobia), fobia degli
insetti, fobia dei cani (cinofobia), fobia dei gatti (ailurofobia),
fobia dei topi, ecc..
Tipo ambiente naturale. Fobia dei temporali
(brontofobia), fobia delle altezze (acrofobia), fobia del buio
(scotofobia), fobia dell’acqua (idrofobia), ecc..
Tipo sangue-iniezioni-ferite. Fobia del
sangue (emofobia), fobia degli aghi, fobia delle siringhe, ecc.. In
generale, se la paura viene provocata dalla vista di sangue o di una
ferita o dal ricevere un’iniezione o altre procedure mediche invasive.
Tipo situazionale. Nei casi in cui la paura è
provocata da una situazione specifica, come trasporti pubblici, tunnel,
ponti, ascensori, volare (aviofobia), guidare, oppure luoghi chiusi
(claustrofobia o agorafobia).
Altro tipo. Nel caso in cui la paura è
scatenata da altri stimoli come: il timore o l’evitamento di situazioni
che potrebbero portare a soffocare o contrarre una malattia (vedi anche
disturbo ossessivo-compulsivo e ipocondria), ecc. Una forma particolare
di fobia riguarda il proprio corpo o una parte di esso,
che la persona vede come orrende, inguardabili, ripugnanti
(dismorfofobia).
E’ importante chiarire che il tipo di
fobia da cui si è affetti non ha alcun significato simbolico inconscio e
la paura specifica è legata unicamente ad esperienze di apprendimento
errato involontario (non necessariamente ricordate dal soggetto), per
cui l’organismo associa involontariamente pericolosità
ad un oggetto o situazione oggettivamente non pericolosa. Si tratta, in
sostanza, di un processo di cosiddetto “condizionamento
classico”. Tale condizionamento si mantiene inalterato nel
tempo a causa dello spontaneo evitamento sistematico che i soggetti
fobici mettono in atto rispetto alla situazione temuta.
Lutto:
insieme di processi psicologici, più o meno consapevoli, che vengono
suscitati dalla perdita di una persona significativa (per esempio a
causa della morte) che ha fatto parte integrante della nostra esistenza,
dall’abbandono di un luogo caro, o dalla separazione geografica. Lo
stato psicologico di lutto può derivare anche dalla perdita di una
dimensione interiore, come ad esempio la perdita di una propria immagine
sociale o un fallimento personale. Il processo di elaborazione della
perdita richiede un certo periodo di tempo e si caratterizza per la
presenza di alcune fasi che sembrano manifestarsi in maniera universale e
costante; Kubler-Ross (1978) ha illustrato le seguenti cinque:
- Negazione = Fase iniziale di shock durante la quale la persona
continua a cercare il proprio caro all’interno dell’ambiente e ne coglie
la presenza;
- Patteggiamento = si comincia a sperare che il proprio caro ritorni e
si fanno promesse affinché questo possa accadere realmente;
- Rabbia = di realizza che il proprio caro non ritornerà più e si
reagisce a questo con rabbia verso se stessi, il destino, il mondo e gli
altri;
- Depressione = consiste nella fase della profonda tristezza e
disperazione relativamente all’irrimediabilità della morte;
- Accettazione = finalmente si comincia ad accettare la perdita e si
ritorna alla vita pur conservando i ricordi che, seppur commoventi
perdono man mano la capacità di produrre un forte dolore.
All’interno di questi momenti, è
possibile rintracciare reazioni emotive che possono comparire in misura
diversa in base alle caratteristiche di personalità o alla cultura di
appartenenza degli stessi soggetti che hanno subito la perdita. Tra le
reazioni emotive più diffuse, è possibile rintracciare: dolore intenso;
rabbia, che a volte può essere diretta verso il soggetto o la condizione
che ci ha provocato dolore; senso di colpa; auto-recriminazioni su
quello che avremmo potuto o non potuto fare per evitare la perdita;
depressione; tristezza.
Mania:
elevazione improvvisa, instabile e solitamente di breve durata, del
tono dell’umore che diventa suscettibile anche a modesti stimoli
stressanti esterni che possono provocare rabbia, irritabilità,
aggressività o profonda tristezza. Da un punto di vista fisico si
caratterizza per un incremento dell’attività motoria e dell’energia,
logorrea e comportamenti bizzarri; la persona riporta o si comporta
coerentemente ad un vissuto di onnipotenza e questo può esporla a
comportamenti rischiosi ed impulsivi. A livello cognitivo si evidenziano
deficit di attenzione e di concentrazione e frequente è l’affollamento
di idee nella mente del soggetto che può sfociare nella perdita totale
dei nessi associativi.
Il contenuto del pensiero può oscillare
da idee di grandezza, nelle forme più lievi, a veri e propri deliri,
nelle forme più gravi. Nelle forme più gravi la mania può giungere ad
una compromissione dello stato di coscienza con sintomi catatonici, in
cui il flusso dei pensieri diventa talmente rapido da causare un blocco
psichico ed un arresto psicomotorio (stupor maniacale).
Mobbing: situazione
lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante
progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad
alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in
posizione superiore, inferiore o di parità, allo scopo di causare alla
vittima danni di vario genere e gravità. Il mobbizzato si trova
nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo
andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che
possono anche portare ad invalidità psicofisica permanente. Il mobbing
non andrebbe confuso con lo stress occupazionale, che,
diversamente dal primo, è una situazione problematica, creata da uno
stimolo negativo detto “stressor”, a cui l’organismo biologico e la
mente cercano di far fronte.
Narcisismo:
rappresenta l’amore che si prova per se stessi e deriva il
nome dalla figura mitologia greca che, per il desiderio di abbracciare
la propria figura riflessa nell’acqua, muore affogando. In ambito
psicologico il narcisismo patologico prende il nome di Disturbo
Narcisistico di Personalità; come ogni disturbo appartenente a questa
categoria rappresenta un modello di esperienza interiore e di
comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della
cultura dell’individuo, è pervasivo ed inflessibile, esordisce
nell’adolescenza o nella prima età adulta e determina disagio o
menomazione in uno dei livelli fondamentali della persona: sociale,
familiare, scolastico/lavorativo. Esistono 3 categorie principali di
Disturbi di Personalità che si distinguono sulla base dei sintomi che
possono essere principalmente di tipo: bizzarro, ad alta emotività, o
ansioso; il disturbo narcisistico rientra nel secondo gruppo. In quanto
sindrome psicopatologica, si manifesta con una sensazione grandiosa di
sé; chi ne soffre si sente unico, importante e diverso dagli altri;
questo può portare la persona a richiedere fori attenzioni e ammirazione
da parte degli altri e manca completamente di empatia, quindi non
sottosta successivamente, ad una normale reciprocità sociale.
Naturalmente, si tratta di persone con
doti spesso normali, quindi possono soffrire molto di non aver ricevuto
l’approvazione che sentono di meritare, reagendo solitamente con
sconcerto ed arroccandosi in una posizione difensiva e tendendo al
rimuginio (più in termini depressivi che ansiosi). Talvolta possono
reagire con rabbia alle critiche, ma più frequentemente la reazione è
quella di vergogna e disorientamento. A questo può seguire il
convincimento che non sono compresi da tutti e che quindi esistano
persone speciali come loro, in grado di comprenderli a pieno; si
riferiscono solitamente a persone altolocate e di prestigio che possano
garantirgli i dovuti privilegi.
Sono persone fortemente manipolative
perché completamente centrate su di sé e sulla ricerca incondizionata di
assenso da parte degli altri, quindi si legano solo a persone che
possano soddisfare questo bisogno; queste vengono idealizzate finché
svolgono la loro funzione di rinforzo contingente e contribuiscono ad
avvalorare il concetto di sé, mentre vengono totalmente svalutati
qualora vadano a diminuire la frequenza o l’intensità di tale
comportamento.
Nevrosi: disturbo
psichico che si manifesta in assenza di causa organica e i cui sintomi
sono interpretati dalla psicoanalisi come espressione simbolica di un
conflitto che trova le sua radici nella storia del soggetto e che
costituisce un compromesso tra un desiderio e la difesa alla
realizzazione di tale desiderio. A partire dalla probabile introduzione
del termine da parte del medico scozzese W. Cullen nel 1777 che lo
utilizzò per indicare quelle affezioni di tipo funzionale che avevano
una sede organica precisa, si è giunti, attraverso i contributi di P.
Pinel e di J. M. Charcot che ne evidenziarono rispettivamente l’assenza
di un substrato organico evidenziabile e la natura squisitamente
psicologica, alla distinzione fatta da S. Freud (1894) tra nevrosi
attuali e psiconevrosi. Le prime sarebbero determinate da
conflitti attuali risultanti dall’assenza o dall’inadeguatezza del
soddisfacimento sessuale, mentre le seconde affonderebbero le loro
radici nella vita infantile del soggetto. Attualmente le nevrosi attuali
sono sempre meno contemplate dalla nosografia sia perché anche i lori
sintomi sembrano risalire ad un’età infantile, sia perché il loro
carattere prevalentemente somatico induce ad inserirle tra i disturbi
psicosomatici.
Il concetto di nevrosi in senso stretto è
teso a concepire il disagio nevrotico come la manifestazione di un
conflitto tra un’istanza repressiva ed una di libertà, che, al di là
della sessualità, riguarda più in generale il concetto di sé, del suo
sviluppo e del suo adattamento al mondo sociale, lungo l’intero arco
della vita. Più spesso però il termine viene utilizzato come grande
contenitore nosografico accanto a quello di psicosi, intendendo tutti i
disturbi che non manifestano deliri od allucinazioni.
Nostalgia:
dal greco νόστος (ritorno) e άλγος (dolore), esprime
classicamente il dolore legato al desiderio di tornare in patria. Da un
punto di vista più squisitamente psicologico, essa esprime anche il
dolore connesso alla lontananza da persone care o da periodi o eventi di
vita passata che si vorrebbero rivivere; può comparire nelle sindromi
da separazione e può evolvere in un quadro depressivo.
Ossessione:
pensiero, impulso o immagine mentale ricorrente e persistente,
che causa ansia o disagio marcato e che viene vissuta come intrusiva ed
inappropriata. La produzione di tale pensiero o immagine è spesso del
tutto inaccettabile quindi la persona cerca di ignorarla od allontanarla
dalla propria mente, talvolta mettendo in atto dei rituali in grado di
neutralizzarla (compulsione). Naturalmente questa azione induce un
decremento della sensazione ansiosa e spiacevole, inducendone quindi il
rinforzo intrinseco: il pensiero mi fa soffrire, il metodo per ridurre
il disagio diventa la “cura”. L’evitamento, seppure efficace in modo
naif p la strategia fallimentare dell’ansia, che contribuisce solo alla
sua cronicizzazione.
Il pensiero ossessivo si caratterizza
per una modalità non intenzionale, suscettibile di critica da parte
della persona che la sta sperimentando, che non riesce peraltro a
liberarsene e lo vive con sentimenti di angoscioso fastidio. Il pensiero
viene riconosciuto come proprio ma il contenuto è considerato
inaccettabile e rifiutato perché vissuto come estraneo alla propria
volontà ed al proprio modo di essere. Le aree di interesse più comuni
delle ossessioni sono la sporcizia e le malattie, la violenza, altri
tipi di mali che capitano alle persone, il sesso e la religione.
Paradosso:
“Il paradosso è un’ambiguità sistematica capace di
produrre l’indecidibilità tramite un’oscillazione riflessiva infinita
tra livelli diversi di complessità” .
Affinché si determini un paradosso è
necessaria la presenza di tutti questi elementi:
- ambiguità
- contraddizione
- appartenenza dei termini in
contraddizione a livelli diversi di una gerarchia complessa
- autoriferimento
- oscillazione riflessiva (circolo
vizioso) infinita
L’ambiguità
E’ sempre presente nelle interazioni e
relazioni umane e riguarda soprattutto la comunicazione analogica.
All’interno delle comunicazioni umane consiste nel presentare
contemporaneamente un ampio numero di significati diversi e questo
rappresenta uno strumento indispensabile nel modulare le espressioni di
un’ affettività complessa come quella umana.
Permette una maggiore ricchezza
espressiva e gioca un ruolo importante in molte attività creative, quali
la fantasia, l’espressione artistica, l’umorismo.
La semplice presenza dell’ambiguità non
dà luogo ad un paradosso, infatti è ancora possibile una scelta.
Contraddizione
Quando la relazione tra due persone
assume una certa importanza ogni segnale ambiguo viene a configurarsi
come una contraddizione tra due o più alternative diametralmente
opposte.
La presenza di alternative
contraddittorie suscita perplessità, dubbio, ma di per sé non porta a
paradosso in quanto è ancora possibile effettuare una scelta tramite un
procedimento per tentativi ed errori.
La presenza di ambiguità e di
contraddizioni non impediscono di operare una scelta nell’insieme delle
possibili forme di definizione della relazione, anche se tale scelta può
essere talvolta difficile o dolorosa.
Appartenenza dei termini in
contraddizione a livelli diversi di una gerarchia complessa
In una gerarchia di complessità il
livello di complessità inferiore non si trova soltanto più in basso
rispetto al superiore, ma è da esso contenuto, e il superiore è più
complesso dell’inferiore, ma lo è meno del livello ancora superiore, che
a sua volta lo contiene.
Quindi, in maniera un po’ simile a un
gioco di scatole cinesi, il livello più elevato è anche il più complesso
e contiene al suo interno tutti i livelli meno complessi.
Si determina un paradosso quando
ambiguità e contraddizione che ne derivano si realizzano su due livelli
differenti, ordinato secondo una gerarchia di complessità ovvero una
gerarchia nella quale il livello inferiore non solo si trova più in
basso, rispetto al superiore, come nelle gerarchie semplici, ma è
contenuto in esso.
Autoriferimento
Ovvero la proprietà posseduta da un
termine o da un messaggio di riferirsi a se stesso.
Ma l’autoriferimento pur se necessario
non è di per sé sufficiente a dar luogo a un vero paradosso.
L’autoriferimento quando si verifica a
ponte tra due differenti livelli di complessità può dar luogo ad un
circolo vizioso, definito catena riflessiva.
Oscillazione riflessiva (circolo
vizioso) infinita
Consiste nell’oscillazione all’infinito
tra significati contraddittori appartenenti a differenti livelli di
complessità, la quale ha per conseguenza l’indecidibilità.
Un paradosso diventa
patogeno quando è presente l’assunzione di “totalità
illegittima”, ovvero quando esso invade tutti i campi e pone l’individuo
in una situazione di indecidibilità continua e infinita, ma anche
quando esso scaturisce da due (o più) totalizzazioni che si incontrano.
Una definizione o un’ingiunzione paradossale non hanno alcun effetto
patogeno se non c’è qualcuno che attribuisca loro valore assoluto,
interpretando in forma totalizzante l’assunzione di totalità illegittima
fatta dall’altro.
Il paradosso terapeutico
o controparadosso ha in comune con il paradosso la
prima parte del percorso (ambiguità e contraddizione), ma non la catena
riflessiva che genera indecidibilità. Esso attraverso un processo
stocastico genera un nuovo apprendimento e quindi un cambiamento (catena
ricorsiva). Il paradosso terapeutico si lega a quello patogeno
interrompendo il circuito che conduce all’indecidibilità e riporta ad
una catena ricorsiva che sembrava diventata inaccessibile.
Paranoia:
in ambito clinico viene incorporata nel Disturbo Paranoide di
Personalità, che si manifesta con comportamenti di tipo bizzarro e
rientra per questo nel gruppo A di questa classe sindromica.
Chi soffre di questo disturbo ha una
persistente tendenza ad interpretare in modo irrealistico (o quantomeno
poco probabile) le intenzioni e le azioni degli altri, solitamente come
umilianti o minacciose. Le persone sono percepite come intrusive,
impiccione, critiche e poco gratificanti e di conseguenza le relazioni
sono spesso evitate o comunque molto instabili. Vengono descritti come
distaccati, isolati, guardinghi. Il termine utilizzato anche fuori
dall’ambito propriamente clinico, mantiene le sue caratteristiche
descrittive principali.
Nonostante la concentrazione sull’altro
sia sempre molto alta, essa è volta ad osservare, non vi è una grande
capacità di empatia ed è per questo che spesso le intenzioni sono
fraintese.
Profezia
che si autoavvera: è stata definita dal suo ideatore, Robert K.
Merton (1948), come una “una supposizione o profezia, che, per il solo
fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto,
aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità”.
In altre parole, un’aspettativa, un
pregiudizio, una supposizione, fanno sì che atteggiamenti e
predisposizioni inconsapevoli inducano negli individui e negli eventi
reazioni che confermano l’aspettativa o l’avvenimento presunto. In
particolare, è possibile evidenziare tre passaggi attraverso i quali
tale fenomeno si esplica:
- a) le persone hanno aspettative nei confronti di un altro individuo;
- b) queste influenzano il loro modo di agire nei suoi confronti;
- c) le attese influenzano le risposte dell’individuo che adotta
comportamenti coerenti con le attese originali, facendo in modo che
queste si avverino.
Una possibile declinazione del fenomeno
della Profezia che si auto avvera è il cosiddetto “Effetto Pigmalione”,
descritto da Rosenthal, per cui le aspettative degli insegnanti,
nei confronti dei propri allievi, risultano determinanti nella riuscita
scolastica degli stessi, in quanto gli atteggiamenti, anche
inconsapevoli, che ne derivano fanno sì che i bambini si comportino
proprio come atteso dal loro maestro.
L’effetto Pigmalione mette in evidenza
come le aspettative possano condizionare la qualità delle relazioni
interpersonali e il rendimento dei soggetti. Esso può manifestarsi in
altri contesti, come quello lavorativo e quello familiare e in tutti
quei contesti dove si sviluppino rapporti sociali.
Psicastenia:
disturbo della sfera nevrotica caratterizzato da mancanza di
energia psichica utile a prendere decisioni ed orientarsi verso i propri
obiettivi, attualmente non più presente nella classificazione
sindromica perché assimilato dal Disturbo Ossessivo-Compulsivo in cui si
mantengono le stesse caratteristiche di indecisione anche se ben più
complesso e caratterizzato, come suggerisce il nome, dalla presenza di
ossessioni e compulsioni.
Psiologia analitica
Si ritiene erroneamente che la Psicologia Analitica di Carl Gustav Jung sia nata da una costola della psicoanalisi
di Freud e che lo stesso Jung fosse allievo del maestro
viennese: in realtà Jung elaborò una propria visione dell'inconscio
autonomamente da Freud essendo entrato in contatto con Pierre
Janet a Parigi alla fine dell'800, e lavorando presso
l'ospedale psichiatrico di Zurigo (il Burgholzli) sotto la guida di Eugen
Bleuler nei primi anni del '900.
Le ricerche condotte da Jung sul cosiddetto "esperimento associativo"
contribuirono enormemente allo studio dei fenomeni inconsci,
e portarono Jung a contattare nel 1906 Freud per
confrontarsi sulle reciproche scoperte circa l'inconscio. Il padre
della Psicoanalisi pensò di trovare in Jung il suo erede, ma dopo alcuni
anni di collaborazione costruttiva ed intensa, arrivarono nel 1913 ad una
rottura dolorosa per entrambi.
In quell'anno, con la pubblicazione del libro "Libido. Simboli
della Trasformazione", Jung si distaccò da Freud sostenendo che la libido
non è solamente energia sessuale, che mira a scaricarsi con il
raggiungimento dell'oggetto desiderato, ma è invece l'energia psichica
in toto; l'inconscio, inteso da Freud (almeno inizialmente) come mero
ricettacolo del rimosso, è visto invece da Jung come una porzione della
psiche che contiene altri contenuti che non sono mai stati parte della
coscienza ed i cosiddetti "complessi" a tonalità affettiva,
articolatisi nel corso delle relazioni significative; complessi che
l'"esperimento associativo" era in grado di evidenziare.
L'osservazione empirica dei contenuti dei sogni, dei deliri di
pazienti psicotici e del vastissimo materiale offerto dalla mitologia e
dalla storia delle religioni spinse Jung a ipotizzare un ulteriore
dimensione dell'inconscio che definì "inconscio collettivo", i cui contenuti
chiamò archetipi. Il Sé, struttura superiore che include l'Io ed alcune istanze degli archetipi rimossi, è stato
visto come motore e scopo del cosiddetto "processo di individuazione".
Per la psicologia analitica junghiana, tale processo di individuazione
archetipica costituisce la finalità dell'esistenza di ogni persona.
La psicoanalisi freudiana riconosce all'attività dell'inconscio ed al
disturbo psichico delle cause, applicando all'indagine
psicologica il modello concettuale ed il metodo di indagine meccanicistici
tipici del positivismo ottocentesco. In questo senso, essa
si definisce come scienza, postulando la possibilità di determinare la
concatenazione di processi psichici che conducono al sintomo
psicopatologico.
La psicologia analitica junghiana segue invece nella propria indagine
un metodo finalistico, il cui obiettivo è
la ricerca del senso dei processi inconsci e della sofferenza
psichica. Di fondamentale importanza è la teoria del simbolo,
inteso da Jung come motore dello sviluppo psichico e strumento di
trasformazione dell'energia psichica, originato dal confronto della coscienza con l'inconscio ed i suoi
contenuti. La dialettica tra conscio e inconscio è ciò che delinea il
percorso analitico.
L'Inconscio-
L'inconscio
personale non è, come per Freud, il "luogo del rimosso", cioè un
contenitore psichico vuoto alla nascita, che man mano si popola di complessi causati da episodi
traumatici infantili. Per Jung anzitutto l'inconscio non è "vuoto", ma è
il contenitore di forme archetipiche universali ereditarie, all'interno
del quale si organizzano le esperienze individuali.
Inoltre esso precede la formazione dell'Io cosciente, e contiene il
progetto esistenziale dell'individuo che ne è portatore, come - diremmo
oggi - una sorta di DNA psichico.
Idea non nuovissima, di ascendenza schiettamente neoplatonica,
già presente, ad esempio, nelle fantasie di Michelangelo a proposito della figura da
scolpire già "inscritta" nel blocco di pietra su cui stava lavorando.
Quest'idea però non era ancora mai stata applicata alla scienza
psicologica, come fece Jung.
Fermo restando che, per Jung come per Freud, l'inconscio non è
direttamente osservabile, Jung enuncia una rappresentazione metaforica
dell'inconscio come popolato da figure interiori, i cui rapporti e
conflitti dialettici generano le dinamiche psichiche: Animus/Anima,
Persona/Ombra, Puer/Senex e così via.
L'Analisi e il processo
di individuazione -
Come ricorda Jung nella sua autobiografia Ricordi, sogni e
riflessioni, parlando della situazione che aveva trovato all'inizio
della professione nell'Ospedale Psichiatrico di Zurigo:
"Il medico trattava un paziente X con una lunga serie di diagnosi
bell'e pronte ed una minuziosa sintomatologia. Il paziente era
catalogato, bollato con una diagnosi, e, per lo più, la faccenda finiva
così. La psicologia del malato mentale non aveva nessuna parte da
adempiere."
L’innovazione che Jung portò nella pratica psichiatrica fu dunque
innanzitutto la consapevolezza che la funzione del terapeuta non
consistesse solo nell'applicare rigidamente un "metodo meccanico", ma
nel porre attenzione alla "storia di vita" del paziente ed alle storie
che egli stesso raccontava:
"Il solo studio della psichiatria non è sufficiente. Io stesso ho
dovuto lavorare ancora molto prima di possedere il bagaglio necessario
per la psicoterapia. Fin dal 1909 mi resi conto che non potevo curare le
psicosi latenti se non capivo il loro simbolismo, e fu allora che mi
misi a studiare la mitologia."
Jung si convinse presto, infatti, anche osservando i propri sogni,
che nel sintomo nevrotico come nel delirio psicotico affiorino immagini e
idee che non sono proprie personali del paziente, ma che gli pervengono
da un "fondo arcaico", e le cui figure possono desumersi da culti,
religioni e mitologie antichi appartenenti a tutti i popoli: sono gli archetipi, forme alla base dell'inconscio
collettivo, condivise da tutta l'umanità, che costituiscono, nel campo
psicologico, l'equivalente di ciò che in campo antropologico sono le
"rappresentazioni collettive" dei primitivi, o, nel campo delle
religioni comparate, le "categorie dell'immaginazione".
Le
cause del disturbo psichico -
L'archetipo, in quanto forma, non agisce direttamente sulla psiche
individuale, cioè sull'inconscio personale, ma attraverso l'emergere di
azioni, pensieri e impulsi il cui simbolismo può non essere compreso e
integrato dall'individuo, che lo pongono in conflitto con la società a
cui appartiene e lo espongono ad una esclusione non desiderata e
temibile come il manicomio e lo stigma di "follia".
La dinamica dualistica ed esclusiva tra Eros e Thanatos
in cui Freud aveva individuato e confinato il motore energetico della nevrosi,
in Jung si articola e si moltiplica in funzione della pluralità delle
figure archetipiche che popolano l'inconscio.
Il sintomo
non richiede più una spiegazione in chiave di causa-effetto, ma viene
considerato esso stesso una "domanda di significato" rispetto al disagio
soggettivo che esprime.
Il disturbo psichico
smette così di essere considerato una malattia,
e l'intervento analitico non viene più considerato solo una "cura"; ne
consegue che la pratica psicologico-analitica junghiana non mira più ad
una "guarigione", ma ad
individuare il senso simbolico e archetipico del disturbo, e ad aiutare
il suo portatore ad utilizzarne l'energia ai fini della "trasformazione"
e della propria individuazione.
Lavorare con gli archetipi richiede certamente, come lo stesso Jung
notava, molte conoscenze di tipo non clinico, perché richiede anche
molta immaginazione: non nel senso del "fantasticare", ma nel senso
dell'immaginazione creativa - quella che Giambattista Vico definiva la "logica
poetica".
Poiché accompagnare il paziente in questa esplorazione richiede da
parte del terapeuta un'attenzione non solo intellettuale, ma anche
empatica (diceva Jung: "Se il medico e il paziente non diventano un
problema l'uno per l'altro, non si trova alcuna soluzione"), è
evidente che, in un'analisi junghiana, la psiche del terapeuta è "messa
in causa" dall'analisi non meno di quella del paziente. Da questo punto
di vista, la teoria della tecnica junghiana ha prefigurato alcuni dei
più recenti sviluppi della psicoanalisi intersoggettiva.
Proprio in relazione a questa consapevolezza, Jung fu convinto fin
dall'inizio della sua ricerca che il "mettersi in gioco" del terapeuta
necessitava assolutamente di trovare supporto nell'analisi didattica e
di controllo:
Il trattamento del paziente comincia, per così dire, dal medico: solo
se questi sa far fronte a sé stesso ed ai suoi problemi, sarà in grado
di proporre al paziente una linea di condotta.
Allo stesso modo, la riflessione sulla necessaria continuità del
processo di supervisione, che dovrebbe essere una costante regolare del
lavoro anche dei terapeuti più esperti, era stata efficacemente indicata
con l'osservazione per cui: "Perfino il Papa ha bisogno di un
Confessore."
Il problema
della psicosi -
Anche in medicina l'idea che il paziente debba partecipare alla
propria cura sforzandosi di assumere consapevolezza della propria
malattia è la base di qualsiasi trattamento terapeutico, anche di tipo
farmacologico.
Tutto ciò, con la maggior parte dei pazienti psicotici
non è possibile, almeno nella fase delirante,
durante la quale qualsiasi discorso interpretativo viene fatto loro non
può essere recepito, ed anche gli interventi farmacologici devono a
volte essere coattivi.
Rispetto a queste situazioni, l'intervento esclusivamente
psicoterapeutico (della psicologia analitica, della psicoanalisi
freudiana o degli approcci cognitivo-comportamentali) rischia
frequentemente l'impasse. Pur essendo nate in contesti psichiatrici e
dal confronto con pazienti psicotici, infatti, le varie correnti
psicodinamiche, al pari di quelle cognitivo-comportamentali, in molti
casi di grave sofferenza psicotica devono trovare spazi di integrazione
con l'uso degli psicofarmaci.
Lo scopo dell'intervento psicologico-analitico o psicodinamico in
tali situazioni diviene allora quello di aiutare a rendere
"intelligibile" il senso della sofferenza del paziente e delle sue
modalità espressive, non appena l'azione psicofarmacologica riesce a
rendere di nuovo "accessibile" il suo spazio relazionale ed elaborativo.
Tutto ciò, con la maggior parte dei pazienti psicotici
non è possibile, almeno nella fase delirante,
durante la quale qualsiasi discorso interpretativo viene fatto loro non
può essere recepito, ed anche gli interventi farmacologici devono a
volte essere coattivi.
Rispetto a queste situazioni, l'intervento esclusivamente
psicoterapeutico (della psicologia analitica, della psicoanalisi
freudiana o degli approcci cognitivo-comportamentali) rischia
frequentemente l'impasse. Pur essendo nate in contesti psichiatrici e
dal confronto con pazienti psicotici, infatti, le varie correnti
psicodinamiche, al pari di quelle cognitivo-comportamentali, in molti
casi di grave sofferenza psicotica devono trovare spazi di integrazione
con l'uso degli psicofarmaci.
Lo scopo dell'intervento psicologico-analitico o psicodinamico in
tali situazioni diviene allora quello di aiutare a rendere
"intelligibile" il senso della sofferenza del paziente e delle sue
modalità espressive, non appena l'azione psicofarmacologica riesce a
rendere di nuovo "accessibile" il suo spazio relazionale ed elaborativo.
Gli sviluppi -
Al momento attuale, si identificano tre "scuole" principali che si
sono sviluppate a partire dalla psicologia analitica originale.
- Scuola Classica: la scuola classica, che si riconosce
principalmente nell'attività del C.G.Jung Institut di Zurigo,
continua ad articolare e portare avanti la tradizione originale della
psicologia analitica e del pensiero di C.G.Jung, enfatizzandone in particolare gli aspetti legati al processo
di individuazione. Negli ultimi anni vi sono stati importanti
scambi con la tradizione della psicoanalisi intersoggettiva.
Tra i suoi esponenti "storici", Marie-Louise Von
Franz.
- Scuola Evolutiva: la scuola evolutiva, sviluppatasi in
particolare in Inghilterra ad opera di Michael
Fordham, propone una maggiore integrazione tra i modelli
psicoanalitici relazionali e quelli propri della psicologia analitica.
Ha approfondito in modo specifico lo studio delle prime fasi dello
sviluppo infantile in ottica psicologico-analitica.
- Scuola Archetipica: la scuola archetipica ha conosciuto una
certa notorietà nel mondo della cultura psicologica e filosofica,
soprattutto per via degli scritti critici di James
Hillman, il suo fondatore e principale esponente. Nella scuola
archetipica si pone grande attenzione ai significati simbolici
archetipali; i suoi esponenti si sono avvicinati anche a tematiche
proprie del pensiero narrativista e post-moderno.
Psicologia
del lavoro: branca della psicologia che studia i comportamenti
delle persone nei vari contesti e nelle varie attività lavorative e
professionali, focalizzandosi in particolare sulle relazioni
interpersonali, sulle mansioni ed i compiti da svolgere all’interno
delle organizzazioni. Si ripropone di facilitare sia il benessere/salute
dei lavoratori, che di garantire un certo vantaggio alle organizzazioni
e di migliorare le competenze, la comunicazione, la motivazione, le
relazioni sia interne che esterne. I campi d’applicazione della
psicologia del lavoro e delle organizzazioni sono principalmente: la
gestione del personale, la leadership, la selezione, la valutazione del
potenziale, la formazione, la comunicazione, i rapporti, le dinamiche di
gruppo, la motivazione al lavoro, il sistema premi-punizioni, lo
sviluppo della carriera, la valutazione delle competenze.
Psicologo:
laureato in psicologia che ha conseguito l’abilitazione
mediante l’esame di Stato ed è iscritto all’apposito albo professionale.
Si avvale dell’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la
prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e
di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli
organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di
sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito. Nello specifico, le
sue aree di intervento sono: la psicologia clinica, la psicologia
sociale applicata, la psicologia del lavoro e delle organizzazioni, la
psicologia dello sviluppo e dell’educazione, la psicologia giuridica e
forense, la psicologia penitenziaria e criminologica, la psicologia
militare, la psicologia viaria, la psicologia delle emergenze, la
psicologia dello sport, la psicologia del turismo, la psicologia della
religione, la neuropsicologia.
Psicosi:
al contrario di molti termini di natura psicologica, questo viene
costantemente utilizzato in modo erroneo nella cultura popolare,
associandolo ad una paura intensa ed immotivata (la psicosi della
meningite, dell’influenza aviaria, della crisi), meglio attribuibile
invece ad una “fobia”.
Per psicosi s’intende infatti un gruppo
di disturbi mentali caratterizzati da un’alterata rappresentazione della
realtà, da errori nel pensiero, nella percezione e negli stati emotivi,
con conseguente produzione di comportamenti bizzarri. Disturbo
psicotico per antonomasia è la Schizofrenia, ma si trovano in questa
categoria altri disturbi come il Disturbo delirante, Disturbo
schizofreniforme, Disturbo schizoaffettivo, Disturbo Psicotico breve,
Disturbo psicotico condiviso (già noto come Folie a deux).
I disturbi psicotici si caratterizzano
per la presenza di:
- Sintomi positivi, ossia sintomi che “aggiungono” elementi alla
realtà, come deliri, ossia pensieri illogici che però vengono sostenuti
con convinzione, ed allucinazioni, propriamente percezioni senza
oggetto, che possono coinvolgere tutti i sensi (vista, tatto, gusto,
olfatto, udito).
- Sintomi negativi, quindi che vedono una carenza in un determinato
ambito, principalmente quello ideoaffettivo (pensieri ed emozioni):
apatia, abulia, anaffettività, incapacità di pianificare gli obiettivi,
ritiro sociale.
- Disorganizzazione cognitiva e delle attività superiori come
linguaggio e ragionamento.
Psicoterapeuta:
psicologo o medico che ha conseguito una specializzazione almeno
quadriennale in Psicoterapia, presso scuole riconosciute dal M.U.R.S.T.
(Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica).
Lo psicoterapeuta, oltre alle attività di prevenzione, diagnosi,
sostegno e riabilitazione, svolge attività di cura attraverso gli
strumenti e le tecniche terapeutiche proprie alla psicoterapia. Lo
psicologo-psicoterapeuta non può prescrivere nessun tipo di farmaco al
paziente. Se necessario si avvale della collaborazione di uno psichiatra
che seguirà la persona nella parte farmacologica del suo percorso
terapeutico.
Art. 35. della legge 56/1989: l’attività
psicoterapeutica 1. In deroga a quanto previsto dall’articolo 3,
l’esercizio dell’attività psicoterapeutica è consentito a coloro i quali
o iscritti all’ordine degli psicologi o medici iscritti all’ordine dei
medici e degli odontoiatri, laureatisi entro l’ultima sessione di
laurea, ordinaria o straordinaria, dell’anno accademico 1992-1993,
dichiarino, sotto la propria responsabilità, di aver acquisita una
specifica formazione professionale in psicoterapia, documentandone il
curriculum formativo con l’indicazione delle sedi, dei tempi e della
durata, nonché il curriculum scientifico e professionale, documentando
la preminenza e la continuità dell’esercizio della professione
psicoterapeutica. 2. é compito degli Ordini stabilire la validità di
detta certificazione.
Tali corsi di specializzazione devono:
essere almeno quadriennali e prevedere un’adeguati formazione e
addestramento in psicoterapia; sono attivati ai sensi del decreto n. 162
del Presidente della Repubblica del 10 marzo 1982, presso scuole di
specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti
dal MURST con le procedure di cui all’articolo 3 del citato decreto.
Psicoterapia: branca
specialistica della psicologia, costituisce uno strumento psicologico
che produce delle modificazioni nella struttura cognitiva ed emotiva del
soggetto. è una specializzazione sanitaria riservata a Medici e
Psicologi iscritti ai rispettivi Ordini Professionali ed in Italia si
consegue tale professionalizzazione mediante un percorso formativo
quadriennale post lauream presso scuole universitarie o private
riconosciute dal M.U.R.S.T. Essa è orientata da indirizzi teorici di
riferimento tra cui possiamo citare gli indirizzi:
psicoanalitico/psicodinamico; sistemico-relazionale,
cognitivo-comportamentale, fenomenlogico-esistenziale ciascuno dei
quali, pur essendo meglio indicato per alcune condizioni e non per
tutte, può applicarsi d’elezione al lavoro terapico con i bambini, gli
adolescenti, gli adulti, gli anziani, le coppie e le famiglie. Al centro
di ogni indirizzo terapeutico si rileva un rationale specifico che
guida il professionista e di conseguenza l’utente in un percorso
caratteristico che ha stili e tempi diversi. Si distinguono infatti
terapie lunghe (superiori ai 2 anni), medie (fino a 2 anni) e brevi
(inferiori all’anno), fra le prime sicuramente quelle a fondamento
psicoanalitico, nel mezzo l’indirizzo sistemico-relazionale (che ha dato
ottimi risultati nell’ambito della terapia familiare) e cognitivo puro,
ed infine le terapie cognitivo-comportamentali che per alcuni disturbi
possono dare risultati entro i 6 mesi di trattamento.
Raptus:
improvviso impulso intensissimo che può portare ad una momentanea
perdita della capacità di intendere e di volere; può spingere il
soggetto ad effettuare gesti violenti od aggressivi di tipo auto o
etero-aggressivo. è quindi una turba episodica accessuale del
comportamento gestuale e motorio che consiste nel bisogno incoercibile
di compiere improvvisamente un gesto od un’azione violenta che risulta
dannosa e che sfugge completamente al controllo vigile dell’attore.
Si distinguono:
- Un raptus ansioso, che si registrerebbe nelle reazioni nevrotiche
acute, con crisi di angoscia talmente invasiva che può concomitare con
stato confusionale, crepuscolare, emergenze impulsive o amnesie
dell’episodio critico.
- Un automatismo psicotico, tipico invece di una bouffe delirante o di
una sindrome confusionale; in questi casi l’atto avviene in una
condizione onirica od oniroide, con compromissione più o meno accentuata
dello stato di coscienza e del ricordo parziale, frammentato se non del
tutto assente.
- Un automatismo allucinatorio, presente all’interno di una sindrome
confusionale, nell’ambito di un episodio dissociativo acuto o a seguito
di un’allucinazione all’interno di un quadro schizofrenico.
- Un impulso patologico, tipico invece delle psicosi organiche come
Epilessia, Alcolismo cronico, Demenza ed Insufficienza Mentale.
Il raptus assume rilevanza in ambito di
diritto penale, in quanto costituisce una momentanea incapacità e quindi
una condizione di non imputabilità o comunque di attenuante, anche se
questo non significa la “liberazione” dell’imputato che, può essere
giudicato socialmente pericoloso e richiedere quindi misure cautelari
alternative alla reclusione in carcere.
Resilienza:
è la capacità di far fronte in maniera resistente, con forza maggiore,
agli eventi traumatici o comunque negativi e di riorganizzare
positivamente la propria vita di fronte alle difficoltà. Il termine
deriva dall’ambito ingegneristico meccanico come la capacità di un
materiale a resistere a sollecitazioni, urti e colpi, Alcuni autori
concepiscono la resilienza come una funzione psichica che si modifica
nel tempo, che può avere una certa predisposizione anche genetica, ma
che si interfaccia continuamente con l’ambiente e le esperienze passate,
i vissuti ed il modificarsi dei meccanismi mentali che ne stanno alla
base,
una persona resiliente è quella che,
totalmente immersa in una situazione per niente benevola, riesce a
fronteggiare le contrarietà efficacemente, cercando di cogliere le
opportunità positive che in tali circostanze continuano ad esistere,
seppur celate.
La resilienza è un concetto importante
soprattutto in ambito di Psicologia delle Emergenze e della
Psicotraumatologia, in quanto ci si trova a lavorare con persone che,
anche nella disgrazia improvvisa, sanno riemergere dalle difficoltà,
cogliendo le possibilità dell’ambiente, della rete sociale e di loro
stesse, per trovare la soluzione più funzionale ed adeguata.
Schizofrenia:
Disturbo psicotico per antonomasia, si caratterizza per un progressivo
distacco dall’ambiente sociale che può avvenire repentinamente o in
maniera più lenta ed insidiosa. Il termine indica il sintomo principale
ossia la dissociazione psichica ossia l’improvvisa incapacità ad
utilizzare i comuni nessi logici fra cose, eventi o stati emotivi.
I sintomi della schizofrenia possono
interessare tutte le funzioni che caratterizzano il comportamento, la
cognizione e le emozioni della persona: la percezione, il pensiero, il
linguaggio, la volontà, la creatività e talvolta tale influenza può
apportare anche alcuni miglioramenti, fermo restando che si tratta di
una malattia fortemente intrusiva, persistente e quindi frequentemente
invalidante.
Generalmente vengono identificate due
principali classi di sintomi, comuni a tutte le psicosi:
- I sintomi positivi o produttivi, che si distinguono in
Deliri: pensieri e convinzioni assolute ed incontestabili
radicate nel cervello del malato, ma prive di una base reale; e Allucinazioni:
percezioni (perlopiù uditive) di stimoli del tutto irreali, come
sentire voci che parlano di lui oppure di vedere oggetti che si muovono
fino al punto di inseguirlo; e Disturbi del pensiero:
pensiero dissociato, “furto” del pensiero, influenzamento del pensiero,
neologismi, “insalata” di parole, tangenzialità.
- I sintomi negativi, rappresentati da: Disturbi
dell’affettività: appiattimento affettivo, ambivalenza
affettiva, contraddizione, autismo; Anedonia: mancanza
di emozioni, abulia, isolamento e apatia. Lo schizofrenico perde
progressivamente ogni interesse per quanto lo circonda e si chiude in se
stesso, dimostrando una forte abulia nei confronti del mondo esterno.
Non desidera più avere rapporti sociali, si estranea dal nucleo
familiare e si chiude in un mondo tutto suo; Disturbi catatonici:
completo immobilismo e mutismo, o esplosioni incontrollate di
aggressività; catalepsia (ossia la possibilità di posizionare le membra
del paziente in qualsiasi posizione).
Secondo il DSM IV-R è
possibile formulare una diagnosi di Schizofrenia quando sono presenti
due (o più) dei seguenti sintomi caratteristici, ciascuno presente per
un periodo di tempo significativo durante un periodo di un mese (o meno
se trattati con successo):
deliri;
allucinazioni;
eloquio disorganizzato (per esempio,
frequenti deragliamenti o incoerenza);
comportamento grossolanamente
disorganizzato o catatonico, bizzarrie comportamentali, manierismi,
posture;
sintomi negativi, cioè appiattimento
dell’affettività;
Infine, sempre secondo il Manuale
Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, la schizofrenia si
differenzia in 4 sindromi:
- forma paranoide-allucinatoria: con una marcata
prevalenza di deliri ed allucinazioni, naturalmente oltre ai sintomi
principali. Spesso assume una forma acuta e comincia durante o dopo il
quarto decennio di vita;
- forma catatonica: i sintomi catatonici sono molto
marcati. Anche i deliri e le allucinazioni sono possibili;
- forma ebefrenica: si sviluppa quando il paziente è
ancora giovane. Caratteristica è la sensazione di superficialità che
questi pazienti irradiano. La prognosi è decisamente sfavorevole;
- schizofrenia semplice: questo processo ha luogo
lentamente ed in maniera non drammatica. Con il passare dei mesi e degli
anni, il paziente perde l’impulso all’iniziativa, rende sempre di meno,
riduce i contatti umani, ed infine sviluppa quasi solo i sintomi
principali ed essenziali della schizofrenia. La prognosi è negativa. Il
paziente non ha praticamente chance di tornare veramente sano.
Nella realtà vi sono diverse
sfaccettature e sovrapposizioni per cui ogni persona affetta da questo
disturbo tende ad essere una realtà fenomenologica distinta dalle altre;
inoltre nelle sue sottoforme il disturbo tende a manifestarsi con
veemenza soltanto durante crisi acute, alternando quindi momenti di
relativo benessere nel quale però si manifestano i sintomi persistenti
della malattia, che ha un andamento decisamente cronico.
Secondo i riscontri dell’Oms, una
persona su tre guarisce completamente, un terzo dei pazienti deve invece
essere sottoposto a un trattamento prolungato, che consente comunque di
svolgere alcune attività anche se non permette il ritorno a una vita
completamente normale. Infine, un terzo tende a diventare paziente
cronico, con progressive difficoltà a conservare le normali relazioni
sociali; è possibile seguire alcuni training specifici che consentono di
aumentare il numero e migliorare la qualità di alcune abilità, da
quelle sociali a vere e proprie competenze lavorative che possono quindi
incidere favorevolmente sulla qualità della vita.
L’ipotesi di una causa genetica della
schizofrenia non è ancora stata confermata, ma è noto che la familiarità
sia un fattore di rischio rispetto alla popolazione generale. Studi su
gemelli omozigoti dimostrano infatti che vi sono altri possibili fattori
causali, come:
Ambiente sociale – La schizofrenia tende a
manifestarsi soprattutto nelle fasce meno agiate della popolazione e con
basso livello culturale. Tuttavia non si sa con precisione se questa
condizione sociale è una causa o piuttosto un effetto della malattia.
Fattori familiari e psicosociali – Fin dagli
anni Sessanta numerosi studi hanno indagato gli eventi stressanti
maggiori rilevando che, le persone affette da Schizofrenia hanno subito
un numero significativamente più elevato di eventi stressanti
immediatamente prima l’esordio o la ricaduta e non ci si riferisce
soltato ad uno stress personale ed individuale, ma anche a quello che
può coinvolgere l’intera famiglia. Tra gli stressor cronici i più
rilevanti sono un ambiente sociale troppo stimolante e quelli prodotti
dai rapporti e dal clima familiare. Il costrutto di Emotività espressa
si riferisce appunto al clima familiare e comprende l’ostilità verso il
paziente, le critiche per il suo comportamento, l’insoddisfazione,
ipercoinvolgimento emotivo (costante apprensione per tutto ciò che fa,
intrusività ed iperprotetività), i commenti positivi, l’empatia ed il
calore. Un clima familiare ad alta EE si caratterizza soprattutto per
l’atteggiamento ostile, le frequenti critiche e l’ipercoinvolgimento
emotivo, mentre nelle famiglie a bassa EE si osserva maggior empatia e
calore, un atteggiamento supportivo e non intrusivo, commenti positivi
su alcuni comportamenti, eventualmente insoddisfazione e preoccupazione
per la sua condizione. Naturalmente il manifestarsi della malattia non è
secondario a certa causa familiare, così come non si ha una natura
completamente genetica; il problema tende però ad esacerbarsi innescando
un circolo vizioso tra alta EE della famiglia e sintomi schizofrenici
dell’ammalato.
Vulnerabilità – Attualmente viene
considerata l’ipotesi causale più accreditata e si basa sulla presenza
di una componente genetica predisponente su cui agirebbero elementi
esterni in grado di “scatenare” la malattia. In pratica, chi si ammala
sarebbe particolarmente esposto alla patologia per motivi genetici, ma
solo le condizioni ambientali, come per esempio una difficile vita
familiare o scolastica, potrebbero dare il via ai sintomi
Neurotrasmettitori alterati – I sintomi più
gravi della schizofrenia (come i deliri) sono direttamente collegati a
un aumento localizzato della dopamina, una sostanza chimica che ha il
compito di favorire il passaggio dei segnali nervosi tra le cellule
cerebrali, in alcune zone del cervello. In particolare, l’eccessiva
attività stimolante della dopamina sarebbe presente nei punti di
collegamento tra i neuroni, le cosiddette sinapsi. Da qui l’ipotesi
biochimica della schizofrenia, che tuttavia viene ancora considerata
tale perché non è ancora chiaro se l’eccessiva attività della dopamina
sia una causa o una conseguenza della malattia.
L’insorgenza della schizofrenia non è
quasi mai eclatante: possono verificarsi manifestazioni ossessive, come
la sensazione di sentire odori strani o voci intorno sé. Nella maggior
parte dei casi la malattia insorge in maniera molto subdola, e proprio
questo rende molto difficile formulare una diagnosi precoce. In genere
vi è una comparsa progressiva di segnali che debbono mettere in allarme e
che ricordano in qualche modo i sintomi più tipici della depressione:
sospettosità, chiusura in se stessi, perdita di interesse per le
attività quotidiane, ecc. In questa fase è molto comune scambiare i
primi segni della schizofrenia con un quadro depressivo, anche perché
non si sono ancora manifestate le tipiche “dissociazioni” con
l’ambiente. Sarebbe invece molto importante riuscire a identificare
precocemente la malattia, perché si è visto che l’intervento terapeutico
in fase iniziale offre risultati migliori nel trattamento.
Segreto
professionale: Obbligo di fedeltà che comporta il mantenimento
del segreto, al quale i professionisti che operano in tutti quegli
ambiti di cura degli interessi dei cittadini, siano interessi legali,
economici o sanitari, sono tenuti per legge ad adempire. Secondo
l’Articolo 622 del codice penale: “Chiunque, avendo notizie, per
ragioni del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte,
di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a
proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare
nocumento, con la reclusione fino ad un anno o con la multa da …”.
A ribadire l’obbligo di riservatezza
nell’ambito della salute mentale concorrono il Codice Deontologico
Nazionale degli Psicologi ed il Codice di Deontologia Medica.
Gli articoli n.11 e n.12 del Codice
Deontologico Nazionale degli Psicologi disciplinano questo ambito,
conferendo al mantenimento del segreto professionale non solo un valore
giuridico, ma anche etico.
Art. 11: “Lo psicologo è
strettamente tenuto al segreto professionale. Pertanto non rivela
notizie apprese in ragione del suo rapporto professionale, né informa
circa le prestazioni professionali effettuate o programmate, a meno che
non ricorrano le ipotesi previste dagli articoli seguenti.”
Art. 12: ” Lo psicologo si
astiene dal rendere testimonianza sui fatti di cui è venuto a conoscenza
in ragione del suo rapporto professionale. Lo psicologo può derogare
all’obbligo di mantenere il segreto professionale, anche in caso di
testimonianza, esclusivamente in presenza di valido e dimostrabile
consenso del destinatario della sua prestazione. Valuta, comunque,
l’opportunità di far uso di tale consenso, al segreto professionale.
Pertanto non rivela notizie, fatti, o informazioni considerando
preminente la tutela psicologica dello stesso.”
Gli articoli 15 e 16 del Codice
Deontologico Nazionale degli Psicologi impongono, inoltre, la tutela del
paziente e la riservatezza anche in caso di interventi in
collaborazione con altri soggetti anch’essi tenuti al segreto e di
redazione di comunicazioni scientifiche. L’articolo 13, invece, impone
cautele e limiti con riguardo a ciò che lo psicologo può esporre
all’Autorità nell’adempimento dei suoi obblighi di referto o di
denuncia.
E’ importante anche poter individuare la
persona offesa dalla violazione del segreto. Spesso, infatti, la
prestazione viene fornita a una persona diversa dal committente e
potrebbe sorgere un conflitto tra i due soggetti, i quali potrebbero
essere interessati in maniera diversa. L’articolo 4, comma 4 del Codice
Deontologico Nazionale degli Psicologi sancisce il dovere di tutelare in
maniera prioritaria, nel conflitto con il committente, il destinatario
della prestazione.
Per quanto riguarda la figura del
medico, l’obbligo del segreto professionale era previsto già nel
giuramento di Ippocrate ed è stato successivamente tramandato fino ad
oggi nelle vigenti norme deontologiche.
Secondo l’articolo 9 del Codice di
Deontologia Medica, il medico deve mantenere il “segreto su tutto
ciò che gli è confidato o che può conoscere in ragione della sua
professione; deve, altresì, conservare il massimo riserbo sulle
prestazioni professionali effettuate o programmate, nel rispetto dei
principi che garantiscano la tutela della riservatezza.
La rivelazione assume particolare
gravità quando ne derivi profitto, proprio o altrui, o nocumento della
persona o di altri.
Costituiscono giusta causa di
rivelazione, oltre alle inderogabili ottemperanze a specifiche norme
legislative (referti, denunce, notifiche e certificazioni obbligatorie):
a) – la richiesta o l’autorizzazione
da parte della persona assistita o del suo legale rappresentante,
previa specifica informazione sulle conseguenze o sull’opportunità o
meno della rivelazione stessa;
b) – l’urgenza di salvaguardare la
vita o la salute dell’interessato o di terzi, nel caso in cui
l’interessato stesso non sia in grado di prestare il proprio consenso
per impossibilità fisica, per incapacità di agire o per incapacità di
intendere e di volere;
c)- l’urgenza di salvaguardare la
vita o la salute di terzi, anche nel caso di diniego dell’interessato,
ma previa autorizzazione del Garante per la protezione dei dati
personali.
La morte del paziente non esime il
medico dall’obbligo del segreto.
Il medico non deve rendere al
Giudice testimonianza su ciò che gli è stato confidato o è pervenuto a
sua conoscenza nell’esercizio della professione.
La cancellazione dall’albo non esime
moralmente il medico dagli obblighi del presente articolo.”
Somatizzazione:
meglio noto disturbo di somatizzazione si caratterizza con un quadro di
ricorrenti lamentele fisiche multiple, clinicamente significative ossia
che comporta la ricerca di un trattamento medico (spesso farmacologico)
e che causa una significativa menomazione nel funzionamento sociale,
lavorativo od altre aree importanti della vita di un individuo. Si
tratta di un disturbo incluso nella grande categoria dei Somatoformi, si
presenta prima dei 30 anni di età e persiste per alcuni anni, affinché
sia possibile farne la diagnosi. Inoltre il dolore deve presentarsi in
almeno 4 loci diversi o funzioni (quindi non sono tutti derivanti dalla
stessa attività, per esempio vari dolori legati alla sessualità,
piuttosto che ad un’intensa attività fisica o psichica) ed inoltre
devono essere presenti almeno due sintomi gastro-intestinali che non
siano semplicemente il dolore. Solitamente si osserva nausea e vomito,
meno la diarrea, in assoluto la minor frequenza si ha invece per
l’intolleranza al cibo. Queste persone, al contrario dei Disturbi
Fittizi, hanno problemi di natura organica specifici e molto intensi che
però hanno origine psichica, ma, poiché spesso vengono misconosciuti
non è infrequente trovarli con una documentazione di indagine
clinico-fisiche ben dettagliata. Lo stato di salute è talmente
compromesso e la persona tanto esasperata da sottoporti ad indagini
anche invasive e dolorose pur di venire a capo del problema. Affinché la
diagnosi sia corretta, oltre ai disturbi gastro-intestinali si deve
registrare almeno un disturbo o una funzione nella sfera sessuale o
riproduttiva che non sia solo il dolore, compresa l’assenza di desiderio
sessuale, anche se questo sintomo può presentarsi come conseguenza del
Disturbo. Il comportamento delle persone con Disturbo di somatizzazione
può essere molto impulsivo, con linguaggio colorito e toni esasperati e
questo può indurre a pensare che il disturbo sia inventato o esagerato
per l’ottenimento di un vantaggio secondario, ma questo non è invece
riscontrabile. All’esame fisico possono essere presenti dei disturbi
reali, ma non risultano mai sufficienti a giustificare il grado e la
frequenza delle lamentele.
Stress: condizione,
cui l’individuo è sottoposto per un certo periodo di tempo, che implica
un dispendio di energie superiore alle risorse personali tale da
mettere in pericolo il suo benessere. Storicamente, gli studiosi che si
sono occupati del fenomeno hanno enfatizzato ora il ruolo dell’ambiente
esterno come fattore determinante l’esperienza dello stress (modello
dello stimolo), ora i fattori interni all’individuo come determinanti le
risposte di stress (modello della risposta). Attualmente viene ribadita
l’importanza dell’interazione tra fattori interni all’individuo e
stimoli esterni nel determinare l’esperienza dello stress e la risposta
ad esso (modello transazionale). Secondo il modello transazionale lo
stress rappresenta un processo che implica continui aggiustamenti,
transizioni, tra ambiente e individuo, il quale viene oggi considerato
come agente attivo in grado di scegliere delle strategie cognitive,
emozionali, comportamentali da mettere in atto di fronte all’evento
stressante. La valutazione delle strategie da mettere in campo per fare
fronte allo stress si sviluppa attraverso due principali processi:
valutazione cognitiva primaria e valutazione cognitiva secondaria. La
prima corrisponde alla fase in cui l’individuo valuta il significato
dell’evento stressante e stabilisce se esso rappresenti una minaccia per
il suo benessere psico-fisico. La seconda corrisponde, invece, alla
valutazione delle risorse disponibili e delle capacità di fronteggiare
l’evento stressante. Farnè (1999) ha proposto una distinzione tra eustress
e distress, definendo il primo come quel grado di stress che
non danneggia la salute e che addirittura può contribuire a migliorarla,
facendoci trovare e godere di successi e trionfi. Il distress, al
contrario, è stato definito come condizione che genera nell’organismo
una richiesta eccessiva a livello fisico e psichico e che si
caratterizza per presenza di fattori quali ansia, disagio, tensione
psicologica ed emozionale, reazioni negative o non adeguate agli eventi
stressanti, che rendono l’individuo estremamente vulnerabile. Lo stress
psicologico esprime una componente estremamente soggettiva: nessun
evento significativo può essere considerato a priori come stressante, ma
viene classificato come stressante nella misura in cui noi lo
percepiamo come tale.
Stress
occupazionale: forma di disagio occupazionale, essenzialmente
di due tipi: lo stress derivante dalla natura stessa del lavoro e lo
stress organizzativo. Il primo si verifica in professioni che sono
stressanti per sé o per le responsabilità che implicano. Il secondo
riguarda specifici problemi organizzativi, ovvero l’impostazione
generale specifica del lavoro (distribuzione dei carichi di lavoro tra
diverse unità operative, ritmi, pause, turni, insufficienza o
inadeguatezza della formazione, ergonomia).
E’ stata individuata, in letteratura,
anche un’altra forma di disagio organizzativo, denominata straining.
Essa consiste in una situazione di stress forzato sul posto di lavoro,
in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha un effetto negativo
nell’ambiente lavorativo, azione che oltre a essere stressante, è
caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è in persistente
inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer). Lo
straining viene attuato appositamente contro una o più persone, ma
sempre in maniera discriminante.
Test:
noto anche come reattivo psicodiagnostico, è uno strumento che permette
di misurare aspetti del pensiero e del comportamento in modo più o meno
mirato a seconda dello scopo. In ambito clinico si tende ad utilizzare
sia test standardizzati che non, mentre solo i primi sono considerabili
accettabili ai fini di una ricerca o indagine più precisa. Si
distinguono test di livello, che misurano quindi delle specifiche
competenze e vengono spesso utilizzati in ambito di Orientamento allo
studio o al lavoro, così come i test di attitudine che possono
evidenziare le potenzialità, anche a livello di personalità, capacità di
lavorare in gruppo, rendimento sotto stress e così via. In ambito
clinico e forense prevalgono i test di personalità come il MMPI-2, pubblicato per la
prima volta da Hathaway e McKinley nel 1942, revisionato ed arricchito
grazie all’intervento di Butcher e Williams. Il test è stato
standardizzato anche in una versione italiana e viene utilizzato per
delineare quadri psicopatologici specifici; le scale emergenti dalla
somministrazione rilevano sintomi di tipo ipocondriaco, depressivo,
isterico, paranoico, psicastenico, schizofrenico e maniacale. è
possibile rilevare un atteggiamento più o meno femminile, in termini più
di ruolo sociale che di orientamento sessuale, ed una certa tendenza
all’introversione ed al ritiro sociale. Il test ha misure di validità
molto sofisticate e data la sua lunghezza, risulta particolarmente
difficile simularne i risultati senza venir scoperti. Scale aggiuntive
permettono di valutare l’autopercezione dei sintomi ed alcune tendenze
specifiche verso le dipendenze.
Se il test MMPI si definisce
strutturato, in quanto fornisce stimoli chiari e specifici, altri test
di personalità, utilizzati e largamente accettati soprattutto in ambito
infantile, si basano proprio sull’ambiguità dello stimolo offerto il
quale dovrebbe rilevare un’interpretazione ed un significato psicologico
personale. I test proiettici consentirebbero di delineare
indirettamente le caratteristiche strutturali della vita psichica e
delle dinamiche cognitive ed affettive del soggetto ed il loro limite
sta nell’interpretazione che poi deriva il clinico, anche se si stanno
delineando linee guida sempre più precise e standardizzate.
Tra i più noti test proiettivi
naturalmente il Rorschach, caratterizzato da tavole con delle immagini
ambigue ed il TAT (Thematic Apperception Test).
Fra i test utilizzati nei contesti
organizzativi, in specifico durante i processi di selezione del
personale, sicuramente uno dei più utilizzato è il 16PF di Cattell per la
semplicità di compilazione e per la completezza dei risultati
ottenibili, tra l’altro adoperabile anche in contesti di tipo clinico.
I test d’intelligenza vengono utilizzati
per verificare la deviazione del quoziente intellettivo rispetto ad un
campione normativo per età e sesso. Il più comune è senz’altro la WAIS,
applicabile in ragazzi dai 16 in poi, mentre esiste una versione per
bambini in età scolare (WISC) ed in età pre scolare (WPSSI). Il test
fornisce un valore di intelligenza globale a partire da 2 scale
subcliniche di natura verbale e di performance, ma anche un indice di
deterioramento mentale.
Simili ai test di intelligenza esistono
poi quelli per individuare le abilità residue e vengono utilizzati
principalmente nei casi di Demenza, patologia che implica un’importante
attivazione nel mantenere le abilità possedute al momento della diagnosi
e nel migliorare quelle che hanno subito un peggioramento (memoria,
linguaggio, orientamento spaziale, riconoscimento di persone o luoghi).
Vantaggio
secondario: comunemente allo stato di malattia si attribuisce
una condizione conseguente sia individuale che familiare, che si
costituisce come una condizione che gioca un ruolo importante nel
mantenimento della malattia stessa. Ogni condizione morbosa,
sottintende, talvolta malgrado chi ne è affetto o i suoi familiari, un
vantaggio secondario ossia una situazione favorevole che la malattia
porta con sé. A volte le persone od i familiari sembrano aver ben
compreso quale vantaggio ci sia in un disturbo di natura psicologica,
primo fra tutti l’attenzione ricevuta, altre risulta invece più
difficile da riconoscere, ma è sempre presente. La ricerca del vantaggio
secondario è fondamentale per il superamento di alcuni disturbi, se non
di tutti e va sempre indagato con attenzione da parte del clinico,
perché può costituire un serio ostacolo alla guarigione. Talvolta, in
una coppia, la malattia svolge una funzione di rassicurazione per chi
non ne è affetto, basti pensare al ruolo accudente/accudito, ai casi di
agorafobia con un partner altrimenti molto geloso, all’ansia da
prestazione sessuale, quando la partner ha uno specifico disturbo
sessuale, per esempio di natura algica. In questi casi il vantaggio sta
nella dinamica della coppia più che nel paziente stesso, che invece può
trarre giovamento dall’essere accudito, scusato per alcune mancanze, al
centro dell’attenzione e così via.
"Alla resa dei conti il fattore decisivo è sempre la coscienza, che è capace di intedere le manifestazioni inconsce e di prendere posizione di fronte ad esse".